Il sex appeal dell'inorganico
Ogni buon spettatore trova quello che cerca: proietta sugli eventi le proprie visioni, aspettative e desideri di conoscenza. E’ una vecchia storia.

Il teatro, la sua percezione, è una delle migliori occasioni per innescare un metabolismo immaginario e al contempo mettersi in gioco direttamente dato che più di qualsiasi altra arte ci impone una reale condivisione del tempo e dello spazio. E’ qui la qualità determinante: la proiezione astratta non rimane isolata , viene incalzata dalla percezione condivisa.

E’ una condizione dinamica proprio perchè ci costringe a prendere posizione, a collocarci da qualche parte nella nostra coscienza.

Un aspetto che mi sembra però sempre più assente in campo teatrale è la disponibilità teorica a trattare di quelle visioni per una riflessione che vada oltre la specificità della scena. Un approccio che al contrario produsse una superfetazione ideologica ai tempi dell’ "avanguardia". Altri tempi.

Tra quell’estremo e questo così povero di complessità teorica , così statico in uno stallo difensivo che vede l’area della ricerca teatrale esclusivamente arroccata su principi di resistenza (materiale e morale) , va trovata una via.

Un tentativo è, ad esempio, quello di ragionare liberamente su ciò che ci accade di fronte al teatro più libero possibile. Libero dalle convenzioni istituite.

E’, forse, un modo per rimettere in circolo un immaginario che riconosca al teatro il ruolo di medium di comunicazione sensibile, coinvolgente, e non solo quello di arte autoreferenziale.

Ignoro quale sia il modo giusto per farlo ma credo che sia necessario riattivare un pensiero pensante: ovvero una procedura in grado di creare interconnessioni tra tanti indizi, visioni e percezioni diverse. Un pensiero disposto a rischiare.

Può sembrare astratto e in fatti lo è. Ma è certamente meno astratto e più vero di tanta cultura umanista che si arrocca su posizioni statiche, rassicuranti e difensive.

E’ necessario riattivare una circolazione del pensiero teatrale, facendo i conti con la contemporaneità e con quella mutazione culturale e antropologica che il teatro (al contrario di qualche anno fa) riesce sempre a meno a interpretare.

Quello che intendo sviluppare qui è una sorta di ricognizione "psiconautica", una navigazione libera in cui trattare di alcuni eventi che hanno alimentato il mio immaginario nomade di spettatore teatrale.

La rotta non è predefinita, ogni approdo ad un’isola (un’informazione,uno spettacolo...) apre un discorso che rischierà di restare sospeso, non concluso. Si tratta infatti di un percorso sinaptico (si proprio come nel funzionamento del nostro cervello: le sinapsi aprono continuamente connessioni psichiche), automatico come il moto naturale del nostro pensiero.

Inizio con un libro, l’ultimo atto teorico radicale di uno dei filosofi (non solo italiani) più attenti alle mutazioni culturali e allenati ad uno sguardo teatrale verso i limiti della rappresentazione.

AI LIMITI DEL SENTIRE

Si tratta dell'ultimo libro di Mario Perniola, docente di Estetica all II Universita' di Roma, che nella sua ricerca ai limiti del "sentire" arriva ad affermare un'emancipazione dall’idea di rappresentazione del corpo, addirittura un superamento dalla sessualita' naturale per orientarsi verso quella inorganica della "cosa che sente".

Emergono intuzioni sottili e per alcuni versi rivelatrici di una mutazione culturale radicale in seno alla civilta' umanista.

Come quella di indagare sull'etimologia della parola "sesso"": da "sexus" che a sua volta proviene da "secare": tagliare,dividere. E' infatti nella divisione dei due opposti complementari, il maschile e il femminile, il convesso e il concavo, che s'innesca un processo che puo' anche essere interpretato in quanto infinito, come infatti sostengono gli stoici per cui l'universo non consta di piu' parti di quanto non ne contenga l'uomo.

E' un'intuizione in grado di misurarsi sia con l'infinitamente piccolo che con le dimensioni cosmiche secondo il principio digitale del "tutto e' numero".

E' questa astrazione matematica, piu' di tante altre imbastite sulle figure cardine del pensiero filosofico occidentale ( da Kant a Wittgenstein), che sorregge Perniola nell'eccitazione per il sex appeal dell'inorganico.

In questo percorso ai limiti del sentire vengono cosi' rilevati come esperienze remarcabili di "forma d'arte inorganica" le musiche per ambienti di Brian Eno, le melodie elettroniche infinite di Klaus Schulze, i paesaggi plastici dei film di Gotfried Reggio, le navigazioni nella realta' virtuale di un cibernauta, la letteratura ascetica e impersonale di Beckett, la metascrittura di Georges Perec.

La lettura di questo libro, ostico ma rivelatore in alcuni tratti geniali, può essere utile per introdurre a una riflessione che apra a una possibilità teatrale ulteriore, oltre quella della presenza organica, della narrazione e della rappresentazione stessa.

Niente panico.

Senza presenza, narrazione,rappresentazione che teatro potrebbe mai essere? Diranno, giustamente, in molti.

Ma qui non si tratta di escludere nulla di tutto questo ma relativizzarlo, semplicemente.

Un’altra occasione per seguire questo percorso un pò tortuoso ai limiti del teatro è stata quella offerta da un seminario da me curato con il Servizio Audiovisivi per la Didattica della Facoltà di Architettura - Politecnico di Torino. Un progetto didattico articolato in diversi incontri con alcuni dei maggiori protagonisti di "Realtà Virtuale d’autore", così definita per fare intendere che anche una modellizzazione tridimensionale interattiva può avere una profonda impronta artistica e , ribadisco, teatrale.

Ne è esempio "Satori", lo scenario virtuale di PIGRECO, in cui si abita un ambiente metafisico , uno spazio in cui agire stando fermi sul posto, da esplorare attraverso un’esperienza sensoriale inedita.

Questo che segue è il testo che ho scritto per introdurre l’ultimo di questi incontri, il più teorico, diverso dagli altri caratterizzati come laboratori didattici sull’immersione in scenari virtuali, con un titolo: "L’esperienza dello spazio. Dall’azione teatrale alla simulazione virtuale".

L’ESPERIENZA DELLO SPAZIO

"Il teatro antico inventato con l'alfabeto in Grecia era la simulazione fisica di uno spazio mentale" afferma Derrick de Kerckove, l'erede intellettuale di Marshall McLuhan.

Un'affermazione che ci rivela quanto il teatro sia fondato sul principio attivo della simulazione di realta' .

Il discorso di De Kerckove trova poi uno sviluppo ulteriore, radicale se vogliamo, proiettato sulle possibilita' offerte dalle nuove tecnologie digitali, quando afferma: "La realta' virtuale e' la simulazione psicologica di uno spazio fisico".

Mettere in relazione il teatro con il virtuale puo' quindi essere utile per interrogarci sul senso della rappresentazione, cogliendo le valenze percettive e psicologiche che sottendono l'esperienza visiva.

Per iniziare a porre delle domande su come l'evoluzione delle tecnologie della rappresentazione corrispondano a quella della mente umana.

Il teatro e' fondamentalmente esperienza di uno spazio e di un tempo , nonche'"percezione condivisa" di cio', come suggerisce Peter Brook, uno dei grandi maestri del teatro contemporaneo. E' infatti dall'azione di un corpo in uno spazio definito che nasce l'idea di rappresentazione.

Un'idea che si trasformera' progressivamente fino a trovare con l'avvento della riproducibilita' tecnica una condizione inedita, artificiale e determinante per l'espansione di una coscienza immaginaria, come fu per il Cinema e poi per la Televisione.

Le realta' virtuali ci invitano oggi a fare un salto di qualita' ulteriore che paradossalmente si riavvicina alla rappresentazione teatrale: e' possibile avere una "percezione condivisa" attraverso l'interattivita' propria dell'immersione in uno scenario tridimensionale.

Si supera la condizione della visione per fare un' esperienza attiva in cui la percezione e' dinamica: per agire, per fare "esperienza di uno spazio".

Un'azione psicologica, di netta rappresentazione mentale.

A questo punto s’innesta un’altra considerazione ancora.

Si ricollega ad alcuni aspetti sfiorati dall’analisi filosofica di Perniola nel parlare di sex appeal dell’inorganico. Riguarda la sottrazione di presenza del corpo: ciò come abbiamo già detto non significa negare nulla bensì comportan la considerazione di una qualità interpretativa in più. Si pensi alla danza "Buto" di Carlotta Ikeda ( vista recentemente al teatro Alfieri di Torino con "Il Linguaggio della Sfinge"). Con quei corpi femminili diafani e inquieti si crea una rappresentazione fisica che si coniuga a tal punto con la regia di luce e di suono da sollecitare un altro sguardo, più rarefatto, disancorato dalla necessità di fissarsi sull’azione, di per sè minima, ridotta ai minimi termini di un’immobilità relativa. Una condizione percettiva quasi meditativa che invita a tirar fuori delle risorse particolari nello spettatore attento e sensibile. A creare una propria visionarietà riflessa, sedotta e sensuale.

Un ulteriore livello del discorso riguarda poi il rapporto tra il corpo e l’infosfera delle tecnologie elettroniche.

IL NUOVO PARADOSSO DELL’ATTORE

Tra le tante teorie in campo sono ancora troppo poche le pratiche teatrali in grado di farci rendere comprensibile le nuove possibilità d’interazione tra scena e tecnologie.

L’occasione è stata offerta da una delle performance che più di tanti altri vagheggiamenti di "teatro virtuale" ha drammatizzato in modo emblematico il rapporto tra corpo e computer.

Si tratta di "Epizoo" di Marcel.lì Antunez Roca, uno dei fondatori de La Fura dels Baus, il gruppo catalano noto per le sue scorribande paniche. Tra gli spettacoli ideati da Antunez ricordiamo "Accions" (1984), "Suz/o/suz" ( 1985) e "Tier Mon "(1988), passati, alcuni, per l’Italia, in particolare a Milano ,all’ex Ansaldo.

"Epizoo" è passato per Roma in una rassegna promossa da Fabbrica Europa (il progetto diretto da Andres Morte e Maurizia Settembri che aveva già realizzato un’ottima serie di eventi all’ex stazione Leopolda di Firenze) e dall’Istituto Cervantes, presentandolo nella piccola e preziosa Galleria dell’istituzione spagnola in piena Piazza Navona.

Sono previste poi per giugno altre fugaci apparizioni di "Epizoo" , a Bologna (per CyBO), a Torino (per ...), a Milano (per Agave) curate dal progetto CYBERIA-Scenari dell’Immateriale.

Antunez è su un piedistallo, seminudo ,avvolto da piccoli tubini trasparenti che agiscono con servomeccanismi pneumatici su piccoli arnesi ortopedici applicati al viso e ad una lunga serie di altre parti del corpo.

Avvicinandosi allo schermo del computer si scorge che la computer animation ricrea il suo corpo e che cliccando sui vari punti di questa immagine viene attivato un compressore che spara aria nei tubicini che a loro volta animano gli arnesi che manipolano bocca, naso,occhi, orecchie, pettorali e natiche.

La piattaforma rotante ci presenta il "corpo glorioso" ( citare Antonin Artaud è più che opportuno) che come una sorta di San Sebastiano postumano viene invaso dall’azione altrui.

O come una "supermarionetta" : il riferimento a Gordon Craig, grande teorico del teatro del novecento, non è casuale.

E’ inevitabile l’imbarazzo dello spettatore che agendo sull’interfaccia grafica provoca una reazione fisica nella scena.

Un vero e proprio paradosso dell’attore. Ben oltre quello teorizzato da Diderot.

(da Sipario 557)

Carlo Infante

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