Orphéon

LA DANNAZIONE DELL'INTELLIGENZA
Abbacinato dal biancore dei neon e dall'affermazione di un teatro ad alta risoluzione di intelligenza sono rimasto sospeso a mezz'aria durante lo spettacolo di Tanguy. Non ho toccato terra. Non ho capito (e non solo perché la mia conoscenza della lingua francese non me lo ha permesso). Non ho raggiunto l'ambita soddisfazione. E mi dispiace.
Principalmente perché avevo forse caricato troppo l'aspettativa di un teatro che sa pensarsi...
Sono rimasto colpito, in primo luogo, da una contraddizione che forse contraddizione non è.
Tra la dimensione intellettuale, fervida come non mi accadeva da tempo d'incontrare, dell'impianto drammaturgico e quella pratica, materica, un po' selvatica e campale dell'allestimento scenico. Quest'ultima va detto subito è inscritta nel globale allestimento di un accampamento concepito anche per accogliere spettatori-nomadi forniti di una propria tenda.
Un luogo, un campo magnetico, in cui attrarre eventi e conversazioni (a cui purtroppo non ho potuto partecipare), incontri in cui dar vita ad un'intensità teatrale. Ma c'è qualcosa che non ha funzionato in quell' "Orpheon": era troppo intelligente. E non c'è dubbio spesso l'intelligenza è una dannazione. Come anche la bellezza. Essere belli e intelligenti non serve a nulla se non si stabilisce un piano di autentica relazione. Ma c'è da pensarci su, ancora. (Carlo I.)
"...un teatro che sa pensarsi..."
IL SUPER-EGO TEATRALE
Altro spazio da vivere: un Circo che si accampa e crea anche un Locale, un bar dove incontrarsi prima e dopo lo spettacolo, dove discutere di filosofia, politica, e chissà. Ma è proprio in questo spazio vivo, insolito, più berlinese che parigino o veneziano, che è avvenuto lo scarto imprevisto. Uno storico, critico, professore intelligente e sensibile ci ha invitati ad incontrare attori, registi, protagonisti di spettacoli e di accampamenti attraenti e curiosi, per capire forse meglio, per scoprire lati nascosti e invece... Invece scatta il narcisismo, il superego, la presunzione della supremazia del pensiero, della teoria, della ideologia sulla pratica teatrale, sulla vita d'arte, e si scatenano sproloqui vecchi, stantii, infarciti di citazioni "classiche " (da Adorno a Benjamin da.. a..), attraversati da ossessioni politiche, ideologiche, disarmanti e quasi insopportabili, senza alcuna capacità di ascolto dei curiosi presenti, dei sinceri ammiratori del loro Fare teatro e non del loro idealizzare, mitizzare, trasformare se stessi in consumati militanti. Peccato: ancora una volta lo spazio, l'accampamento, i cani randagi in visita, i tecnici affamati che mangiavano noncuranti degli sproloqui, i figli che giocavano ignari, le prove audio, erano la piacevole realtà teatrale sbarcata al Lido di Venezia. (Gianguido P.)
UN'OASI DI TRANQUILLO PIACERE
Se quello che dice Salinger: "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira" vale anche per uno spettacolo e il suo regista, allora questo spettacolo mi ha lasciato senza fiato.
Non ho percepito la noia che tutti lamentavano e non capire pienamente il testo non mi ha disturbato affatto. Evento a sé stante, tra una bagarre circense prima e una poi.
Odore di legno delle panchine e atmosfera precaria del capannone l'attenzione fluisce dalla mia mente attraverso gli occhi raggiunge la scena viene gratificata dagli attori, lì, onirici e precisi, trasformisti, impavidi, potenti; facce colorate, maschere bianche, portatori di messaggi, creatori di uno spazio come un pezzo di luce ritagliato e lì incollato.
Carlo all interno del suo discorso "crudo/cotto" lo chiamerebbe "stracotto", bello magari, ma stracotto;
io, invece, lo chiamerei più "oasi di tranquillo ed estetico piacere". (Anna B.)

"...gli attori, lì, onirici e precisi, trasformisti, impavidi, potenti"

LA RAPPRESENTAZIONE DEL TUTTO
Sicuramente uno spettacolo che non mi ha convinto. Non è una sensazione precisa, ma è una sorta di puzza sotto il naso, un dubbio che mi ha pervaso durante tutto lo svolgersi. Vi spiego, da una parte ero estremamente attratto dallo spettacolo, a partire dalla scenografia: questo teatro tenda, così approssimato, così instabile, sembrava costruito senza un'idea precisa, partendo da un punto per arrivare chissà dove. Di fronte alla tribuna una serie di pannelli di legno convergevano verso un'ideale "linea di orizzonte" e ciò in qualche modo, assieme alla musica "enorme", e al recitare "enorme" (abnorme?), dava alle scene una sorta di importanza TOTALE. Come se ciò che si rappresentava fosse un certo quale TUTTO. Tuttavia in contrapposizione a questo (e vi
riferisco solo quello che provavo), non sono stato minimamente attratto, ero distratto, non m'interessava, mi è bastato uno sguardo per farmi l'idea. Ora se tento di capire perchè è andata così, le cose si fanno difficili.
(…)Ritorno a dire che probabilmente è il mio occhio che non è esperto, ma in quanto tale, mi si può concedere un abbagliamento, ma se quello che vi interessa sono le nostre sensazioni personali più che i nostri "giudizi" imparziali, allora potrete leggere quello che scriviamo, senza offendervi. (Michele D.)
LA GRANDE SOFFITTA UMIDA DEL TEATRO CLASSICO
Ottima idea, ottima pratica, questo accampamento, metà Circo. metà campo profughi, metà stazione di Zingari.
Ancor meglio riuscire a "vedere" più spettacoli nella stessa sera, uno quasi dietro l'altro.
Nel mio caso ancora meglio aver potuto vedere prima l'Orpheon e dopo appena mezz'ora La Baraque: un passaggio dalla Morte alla Vita, dalla drammaticità alla comicità, dal sogno inquietante alla realtà ambigua. Vivendo, in quasi 5 ore di Teatro, un prezioso concentrato di Verità Umane contrastanti.
Se avessi visto i due spettacoli in due giorni diversi, entrambi mi avrebbero colpito meno. Nella loro assoluta diversità e autonomia, visti in sequenza erano come il primo ed il secondo tempo di un unico spettacolo teatrale.
Di Orpheon mi rimane un netto odore di muffa, autentico, provocato credo da tutti quei pannelli di legno e stoffe, un pò vecchi e inumiditi dal delizioso clima lagunare: quell'odore rafforzava perfettamente un clima da magazzino trasandato. La forza espressiva dello spazio ,delle luci, delle musiche, dei movimenti e della recitazione, mi trasportava in una strana condizione sospesa: eppure gli autobus, le moto, la macchine passavano velocemente nella strada vicina del Lido, come a marcare la vicinanza con la quotidianità. Ma vinceva il Teatro, il sogno, l'odore di muffa, i visi imbiancati e le voci sussurrate o urlate di personaggi "operai".
Sì operai: quello spazio magazzino enorme , quei costumi poveri, quei siparietti minimali, mi hanno trasportato in uno strano sogno: nella grande soffitta umida di un Teatro classico, con quinte e pannelli da pronto uso, i tecnici del teatro in un giorno di pause del lavoro quotidiano, cominciano ad esprimersi eseguendo pezzi di opere teatrali scegliendo personaggi a piacere, indossando stracci di costumi usati e ormai inutilizzati, come in uno sfogo collettivo dopo anni di fredde esecuzioni di movimenti tecnici per la esecuzione degli spettacoli svoltisi in quel grande teatro. Una messa in scena improvvisata e surreale con protagoniste le maestranze operaie stufe di reprimere le proprie passioni. (Gianguido P.)
IL RISCHIO DI PERDERSI
Uno spettacolo denso, alla ricerca di nuovi limiti da superare ad ogni messa in scena, contro il teatro "joli" tanto apprezzato dai più. Un tentativo di eliminare quella sorta di schermo che separa il pubblico da ciò che avviene sul palco, portando tutto (luci, attori, spettatori) in un unico ambiente che di fatto aggiunge ai problemi dell'interpretazione teatrale quelli di un grande lavoro fisico: ovvero il fatto di montare e trasportare una tenda di enormi dimensioni assieme a tutto l'altro materiale scenico. C'è il rischio di perdersi nell'incomprensibile: tanto da apparire borioso (boriosaccio) in questa suo desiderio di distinguersi; tanto da rischiare di apparire "joli" ad un pubblico annoiato che alla fine si alza ed applaude con un entusiasmo tale da far pensare ad un'esultazione per il finalmente giunto momento di uscire più che ad un reale apprezzamento di ciò che ha visto. (Davide O.)
FRANCESI
Sono Francesi, e come al solito esteticamente perfetti.
In tutta la Biennale teatro questa è la prima rappresentazione in cui mi appare netta l'identità di "compagnia teatrale". Sarà perché questi attori viaggiano come una grande carovana, sarà perché anche sul palco i ruoli messi in scena sono più "persone" che "personaggi". In ogni caso superficialità è la sensazione impressionante che mi hanno lasciato. E ribadisco, una ricerca maniacale del dettaglio che non mi ha permesso di percepire sostanza teatrale (o, se si vuole, chiamiamola partecipazione) nell'interpretazione. Mi ha anche molto colpito, non so se positivamente, l'insistenza nel riproporre, per due ore consecutive di spettacolo, un unico spunto, un'unica idea scenica. Quella dei volti coperti di bianco, quella di pannelli mobili, continuamente spostati ad inseguire la scena. Non mi è riuscito di apprezzare questo tipo di lavoro, anche per il loro tentativo di coniugare un'esperienza teatrale ad una politica.
Per spiegare meglio quello che intendo vorrei fare una citazione come ne hanno fatte in quantità enorme questi attori, durante un dibattito successivo allo spettacolo. Questa mi è sembrata una rappresentazione che si presenta al pubblico così com'è, senza mediazioni dialettiche e senza il tentativo di spiegarsi con una chiave di lettura o attraverso un linguaggio comune, come poteva essere, per esempio, una traduzione dal francese. Di fronte a questo atteggiamento riesco solo a citare un intellettuale napoletano di età napoleonica. In un suo saggio storico sostiene una tesi: i capi rivoluzionari francesi hanno fallito nelle mire universalistiche di diffusione della loro rivoluzione e della loro cultura perché si sono proposti e hanno proposto a società culturalmente diverse i loro modelli senza aver prima cambiato nulla a livello sociale e senza aver mediato in modo comprensibile all'Italia i loro messaggi. Così, a mio parere, lo stesso vale per questo spettacolo: una proposta culturale diversificante e "rivoluzionaria" si svalorizza diventando dominarismo e astrattismo estremistico per chi non ha degli strumenti di decodificazione. (Rosa D. S.)
IL SOGNO ASSOLUTO
Devo dire che il mio ricordo di questo spettacolo assomiglia molto ad un sogno (anche perché la mossa di dimenticare a casa il libro coi testi tradotti in italiano non è stata particolarmente furba). Per lo più mi è rimasta un'immagine di pannelli bianchi che correvano per il palco come animati da vita propria, di lunghi dialoghi multilinguistici di cui captavo brandelli di significato (spiando a volte dal libro del mio vicino) e di attori provenienti da una dimensione in qualche modo fantastica, come allucinati e, allo stesso tempo, allucinanti. Eppure questo spettacolo mi ha colpito e ne ho un ricordo in qualche modo definito dentro di me. (…)
Quando sono entrata un pelo in ritardo (avrete forse già capito ahimè che non sono una persona molto molto precisa) mi sono trovata davanti ad una cinquantina di persone sedute su panche che ne osservavano un'altra che camminava sopra un tavolo. Non c'era alcuna distanza fra loro e quindi l'attore sembrava più che altro un folle, così estrapolato dalla scena. Eppure quando anch'io mi sono seduta mi sono resa conto della potenza evocativa di questa rappresentazione, di una sorte di energia latente che forse deriva dal teatro greco antico, quando l'attore recitava davanti ad un pubblico alla luce del sole e senza scenografie, non so. Molto ancora c'è da scoprire sui canali che attraversano le nostre percezioni… (Irene T)
TROPPO PERFETTO
Colpito dalla loro concezione generale dell'arte teatrale, la provenienza, la storia, l'itinerario che li ha portati fin qui a Venezia, ho assistito con grande interesse allo spettacolo del Thèatre du Radeau, una delle compagnie teatrali più affermate in Europa. Pur avendovi trovato molti spunti di riflessione, lo spettacolo in se mi è sembrato un freddo esercizio di stile, una rappresentazione un po' monotona delle poetiche della Zattera (è il significato di Radeau). Per esempio il lavoro degli attori, che è sempre la cosa più difficile da valutare, sinceramente mi è sembrato così perfetto da risultare perfino fastidioso: il mantenimento della posizione e la pulizia dei movimenti tramite la fissità dello sguardo (accentuata dal trucco bianco) sono tipiche di molte scuole di recitazione francesi e denotano concentrazione e talento da parte degli attori ma, sbaglierò, mi sembrava una stucchevole "pantomima" per i temi complessi de testi proposti. In pratica, sfumando i personaggi, la fragilità della liberazione dell'uomo che si voleva rappresentare non supera la "soglia della percezione" alla quale il regista Tanguy vuole portare lo spettatore. (Massimo D.)