Diario di Bordo

• Tracce dal Forum “Per un’Integrazione Partecipata: quale teatro?_ forum iniziale”

Trovano luogo qui alcuni dei tanti interventi : molti non sono stati selezionati per la pubblicazione perché caratterizzati dalla comunicazione “da forum”, tesa cioè ad uno spirito di conversazione, e per i riferimenti impliciti ad un dibattito non facilmente comprensibile nella lettura di un diario di bordo come questo. Rimane comunque necessario affacciarsi al forum attivato per comprendere alcune dinamiche che solo esplorando la conversazione on line trovano senso. Il fatto che il forum abbia espresso diverse funzioni per quanto riguarda l’esercizio della scrittura: dall’essere utilizzato come un quaderno interattivo di appunti a rivelarsi come “non-luogo” di conversazione, da bacheca di interventi-sentenza ad ambiente intimo di riflessione di forte impronta soggettiva. In questo “forum iniziale” sono coinvolti in primo luogo gli studenti del corso universitario di “Informatica Multimediale. Azioni e sguardi teatrali” dell’Università di Lecce ma dopo una serie d’incontri presso la Scuola Media “Galateo” si apre il dibattito anche con gli insegnanti che più avanti daranno vita agli altri forum collegati ai laboratori.

oistros lecce - 8-10-2002 alle 14:19
Integrazione, noi a Taurisano, per ora, sperimentiamo molta disintegrazione. Partecipata? Nello Stato di Taurisano neanche quelli che sono addetti a sborsare i quattrini partecipano. Figuriamoci gli insegnanti! da anni hanno rinunciato al loro compito di educatori, lasciando alla deriva identità dimenticate (vedi rom," malati mentali", disabili, derelitti della società...) e piangendo, ora, sette suicidi per impiccagione. Le amministrazioni finanziano progetti faraonici per l'integrazione e la valorizzazione delle diversità! Noi dal campo non possiamo che riportare un senso di frustrazione generale che ha colpito una società intera. Forse solo Viganò, per ora, ha dimostrato interesse (ha una perversa mania verso i casi disperati!) ha dato una serie di consigli ma ci chiediamo: un’ esperienza di questo tipo ci mette nelle reali condizioni che, in una situazione di "zero assoluto" qualsiasi "teatro" possa già apparire come una grande conquista? (Anche la recita parrocchiale, ad esempio, in questo momento sarebbe qualcosa in più per quel paese e per la sua gente). La domanda quindi è: quanti teatri sono possibili? E' possibile creare un modello di teatro valido per cercare di "ri-magliare" quel tessuto sociale smembrato da anni di assenza di teatro inteso come forma di socializzazione e narrazione. Quale teatro può rappresentarsi e raccontarsi per poi raccontare ad altri il proprio modello? Un teatro di denuncia? Denunciare i giri di finanziamenti e speculazioni sarebbe anche allettante! Un teatro d'avanguardia e ricerca? In un territorio che più conservatore non si trova! Un teatro realistico- documentaristico? Dove la gente si possa rispecchiare per dover provare quel senso di disgusto e indignazione scomparso da tempo. Anche noi ci chiediamo: quale teatro per l'integrazione, anzi per la ri-cucitura?

Valentina - 8-10-2002 alle 16:19
Siamo Valentina e Sabrina: premettendo che non abbiamo partecipato all' esperienza di Taurisano e quindi non abbiamo osservato la realtà di questo paese, troviamo difficoltà nell' esprimere le nostre opinioni al riguardo. Occorre mettere in evidenza tutta una serie di situazioni che portano il bambino disabile a considerarsi ed essere considerato "diverso"; possiamo prendere in considerazione il caso dell' insegnante di sostegno: come integrare un bambino che viene isolato in una classe a parte, con giochi a parte, con una maestra a parte, con esperienze a parte? La loro "diversità" non deve estraniarli da questo mondo, essi ne fanno parte. Lo stare con gli altri porta il bambino ad interagire, ad imparare a stare in società senza chiudersi in un mondo tutto suo. E' per questo che abbiamo bisogno di un teatro nuovo, capace di far sentire il bambino partecipe. E' lui che deve vivere il teatro insieme a noi, è lui il protagonista assieme ai suoi compagni. Il nostro teatro dovrebbe lavorare sugli spunti che ci vengono offerti dalle piccole menti creatrici! Quindi facendo esperienza con gli stessi bambini, potremmo cogliere tratti di alcune situazioni particolari che si verificherebbero durante la giornata. Ecco di cosa c' è bisogno: IL TEATRO DELLE PICCOLE MENTI CREATRICI. In tutto ciò non c' è niente di utopistico e irrealizzabile, basta solo un po' di fantasia per realizzare esperienze teatrali sempre più particolari.

Vinicio Antonio Attanasi - 8-10-2002 alle 17:49
Io ho passato l'intera estate a "partecipare all'integrazione" nel paese di Taurisano! Il primo tentativo è avvenuto prima di tutto tra noi "normodotati": non eravamo certo "amici di vecchi data!" Una volta tentato ciò, è arrivata la fase più difficile integrarci con chi non vuole integrare estranei al territorio e alla loro "razza"! Mi spiego. Ci siamo trovati di fronte ad una situazione molto particolare, il gruppo di ragazzi da gestire era molto vario : rom, disabili, ragazzi con problemi di disagio familiare e non solo. Come se non bastasse, ho subito notato che esistevano all'interno di questa "REALTA'" ulteriori sottogruppi che si chiudevano entrando in conflitto fra loro, ed emarginandosi a vicenda! Gli stessi operatori del posto (che, in teoria, avrebbero dovuto conoscere le difficoltà di quella realtà) erano pieni di pregiudizi!...Come fare a superare un muro così resistente e con solide fondamenta...infondate? E' stata dura, (e lo è ancora!) perché lottare contro i pregiudizi e l'indifferenza è sempre molto difficile e delicato! Cose banali da dirsi, forse, ma reali e presenti al di là di ogni immaginazione!!! Io sono stato fortunato perché ho avuto la grande occasione di rapportarmi ad un ragazzo autistico. Ho capito molte cose e ho riflettuto molto. Ho lasciato spazio dentro di me per pensare a qualcosa fino a quel momento troppo distante! Ho messo in gioco le mie certezze e cambiato il modo di percepire ciò che mi sta intorno! GRAZIE AD AMEDEO!

Francesco - 9-10-2002 alle 10:55
Io non ho collaborato all'esperienza di Taurisano, ma ho avuto già a che fare con soggetti disabili quando ho partecipato in qualità di collaboratore esterno ad un progetto di musicarterapia presentato ad un convegno a Riccione. Il rapporto con queste persone non è affatto semplice e ne siamo tutti consapevoli, credo. La difficoltà per me non è stata nella ricerca di un rapporto anormalità-normalità: questi concetti NON ESISTONO, si tratta di puri e semplici pre-concetti che nascono all'interno del singolo uomo o della comunità a cui egli appartiene e che personalmente non mi piacciono. La difficoltà che io ho riscontrato è stata un'altra, ovvero far capire loro che per essere accettati da un'altra persona non è necessario comportarsi come lei. Avevo notato, e alcuni dialoghi me lo hanno dimostrato, che alcuni dei ragazzi cercavano in tutti modi di imitare, più che i responsabili, me e una mia amica, cioè gli ultimi due arrivati. In sintesi per relazionarsi con noi tendevano a comportarsi come noi. Io credo che una persona debba sempre comportarsi per quella che è, mostrarsi agli altri per quelle che sono le sue caratteristiche al di là se queste siano poi quelle che la gente considera buone o belle e al di là se la persona in questione abbia qualche handicap o meno. Pertanto concordo pienamente con Valentina e Sabrina, estendendo il discorso anche ai disabili giovani ed adulti, che è necessario ci sia un'interazione tra loro e il mondo che li circonda, non vanno trattati diversamente dalle persone che invece disabili non sono (anche se su questo vorrei precisare che non esiste una persona non disabile, in quanto tutti abbiamo difetti o problemi o handicap che magari per il solo fatto che non sono visibili ci collocano in quello che il gregge definisce normalità assimilandoci alla massa degli "abili"). Pertanto parlando prettamente di teatro, credo che sia necessario trarre idee da quella che è la loro mente, la loro capacità di inventare ( che nella piccola esperienza che ho maturato ho riscontrato essere notevole) le loro caratteristiche, perché solo smettendo di trattarli da altri (nel senso di membri di una comunità limitata, esterna alla propria, che va aiutata perché caratterizzata da incapacità) si potrà raggiungere l'obiettivo finale dell'integrazione, intesa non come inserimento in qualcosa che già c'è, ma come costruzione di un qualcosa di nuovo e unico.

Paola - 9-10-2002 alle 11:46
Avete mai pensato che se il mondo non fosse "plurale" non ci sarebbe opportunità di CONOSCERE? Se non esistesse la "diversità", non ci sarebbe nessuna possibilità di CRESCERE? In realtà su una cosa così ovvia non mi ero mai soffermata a riflettere...La mia esperienza diretta si riferisce al Lab. nell'Istituto Alberghiero di Otranto, contro la dispersione scolastica. E' qui che sono venuta in contatto con una realtà assolutamente diversa dalla mia e che fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione. Stabilire un rapporto con quei ragazzi non è stato facile. Nessun portatore di handicap fisico ma sulle spalle gravi problemi familiari o psicologici dovuti ai più diversi motivi (ma questi li abbiamo compresi solo molto tempo dopo!). La prima cosa che mi ha scioccata, così subito, è stato sentire che nessuno di loro avesse sogni o desideri...non so, ma pensare che un ragazzino di 14 anni possa vivere senza sogni, mi ha fatto scivolare improvvisamente in una profonda riflessione su me stessa e sul perché, fino a quel momento, avevo dato per scontato una serie di cose. Che rispondi a chi, con gli occhi sgranati ti domanda: "Perché dobbiamo soffrire?" Non avevamo una soluzione, e per quanto cercassi dentro di me, continuavo a sentirmi nuda, spogliata dalle mie certezze. Mi ha fatto bene. Ero assolutamente impotente. Mi sono chiesta, allora, cosa potessi fare io per prima, per capirli. Immediatamente, d'istinto, ho cercato di trasmettere sicurezza, disponibilità e amicizia. Ma questo non bastava. Ho capito che per poter trovare una chiave d'accesso alla loro vita, dovevo integrarmi per prima io. Avrei dovuto parlare il loro stesso "linguaggio" (e non mi riferisco solo al linguaggio verbale, ma a quello silenzioso degli sguardi e delle paure espresse attraverso il corpo), cercare di vedere il mondo attraverso i loro occhi. Accidenti, che peso questa immedesimazione! Dentro di me è successo qualcosa di assolutamente imprevedibile: stavo crescendo, e grazie a loro! Ho iniziato a domandarmi se quei ragazzini fossero davvero così lontani dalla "normalità", oppure ero stata indotta a pensarlo perché qualcuno me li aveva presentati in quel modo? Forse quei comportamenti, quel disagio, erano solo una barriera per difendersi da persone e situazioni troppo grandi e dolorose? Tirar fuori qualcosa sui loro sentimenti, è stato un processo lunghissimo e solo parziale. Insieme abbiamo giocato (seppur con grandi difficoltà), abbiamo cercato di mettere il luce le forze individuali e scoprire la fiducia in se stessi da contrapporre alla passività. (…) Non bisogna solo domandare, ma anche ascoltare e "farsi interrogare", sempre; rispettare la personalità dell'altro e la SUA umanità. Almeno, oggi, questo vale per me!

bea - 9-10-2002 alle 07:14
E’ iniziata la nostra avventura! Tre giorni intensi. Noi insegnanti impegnati nel Progetto INDIRE, alcuni studenti universitari, l’OISTROS (centro di ricerca e animazione teatrale dell’Università di Lecce) e Antonio Viganò (attore e regista del Teatro La Ribalta della provincia di Lecco e dell’Oiseau Mouche di Lille con una lunga esperienza di Teatro di/con giovani disabili psichici). Il suo Laboratorio sul corpo poetico ci ha immediatamente catapultati in un tempo e in uno spazio insolito per molti di noi… il corpo che si fa poesia! Ci ha chiesto di raccontare una "storia d'amore" con le mani. Io avrei voluto raccontarne una. Me l'aveva raccontata Damiano, a scuola. Lui raccontava ed io scrivevo sul suo quaderno. Faceva una gran fatica, Damiano. Non sempre riuscivo a capirlo. E lui ripeteva... e ripeteva... finchè io non capivo. E poi mi ha chiesto di leggere io (per lui) la sua storia d'amore ai compagni del nostro laboratoorio teatrale/di libera espressione, agli altri insegnanti. E poi ha portato il quaderno a casa, e l'ha fatta leggere alla sua mamma. E ora io la racconto a voi... "... Di notte io mi alzo e vado nel salotto, apro la porta e controllo la luna, lontano... lontano... Mi piace la luna. Sembra un pallone. Io immagino di buttare lontano la luna e poi di prenderla e poi di portarla a casa mia e metterla in un quadro. Così, io la guardo sempre, la luna." La bocca di Damiano ha raccontato una storia d'amore. Le mie mani l'hanno tradotta in segni. Altre orecchie hanno ascoltato. Può essere questa l'"integrazione partecipata"? E questo, che tipo di teatro è?

LLuiss - 9-10-2002 alle 10:12
Talvolta e' inspiegabile l'ineffabile bellezza e la forte sensazione di sicurezza che ti deriva dall'armonia di un ragionamento.. aver trascorso qualche ora con Gino, Carlo, Antonio, Giuliano e Beatrice, gli studenti, le insegnanti, ha significato questo....un piccolo frammento di vita, di quelli che non fanno volume!! Grazie

marina - 9-10-2002 alle 16:06
Mi ritrovo in una nuova realtà, in una nuova dimensione e questo mi mette ansia, molta ansia. Mi si chiede di muovermi, di fare gesti liberamente e di occupare uno spazio sempre più ampio. Si chiede questo a me, a una persona molto timida, riservata, che ha sempre evitato di mettersi al centro dell'attenzione. Mi si chiede di" mettermi in gioco ", di "giocare per non essere giocati ", va bene: accetto il gioco! lo accetto perchè penso che serva a me per cercare di superare dei blocchi personali e penso che servirà ancora di più per favorire tra ragazzi, tra docenti e ragazzi un contatto, un "incontro con l'altro", spesso così difficile da trovare. OK: GIOCHIAMO!

rosi - 9-10-2002 alle 16:14
finalmente ritorno a giocare, a giocare con il mio corpo. Il mio corpo nello spazio: provo, sento, vivo esperienze, sensazioni, stati d'animo. Di nuovo nel laboratorio teatrale: volti nuovi, tanta ansia, tutti in gioco e voglia di riprovare.

gua - 9-10-2002 alle 16:39
In questi due primi giorni di laboratorio posso dire di aver vissuto per la prima volta un momento pratico importante, poiché ci sono alcune cose, alcuni atteggiamenti che non possono essere capiti, assimilati e trasmessi se non li abbiamo vissuti attraverso il corpo, in una situazione in cui siamo fisicamente e non astrattamente impegnati.

bianca - 9-10-2002 alle 16:43
Questa esperienza, per alcuni aspetti da me già vissuta, mi ha fatto riflettere sul mio modo di avvicinarmi agli altri, su come vivo il mio corpo e lo spazio. Ho provato disagio nell’espressione individuale mentre in gruppo ho lavorato con maggiore sicurezza. Gli stimoli offerti, essendo stati numerosi, mi hanno procurato disorientamento. Le mie aspettative erano diverse, tuttavia, spero di riuscire a mettermi in discussione.

rosanna - 9-10-2002 alle 16:47
L'impressione iniziale che ho avuto durante il primo incontro con Viganò, è stata di disorientamento; non riuscivo a capire la validità dei movimenti che ero invitata a fare. Man mano che passavano i minuti ho iniziato a partecipare con più entusiasmo sino a giungere, alla fine della prima serata, a sentirmi parte integrante del tutto. Nel secondo giorno la mia disponibilità è stata totale e ho eseguito con piacere ciò che mi si chiedeva di fare. Sentivo il mio corpo rispondere ai messaggi esterni e soprattutto riuscivo a capire che intorno a me c'era uno spazio di cui dovevo appropriarmi. Mi sono resa conto che non era necessario usare le parole per parlare, ma che il mio corpo poteva esprimere le mie emozioni con semplici movimenti e che riuscivo a portare all'esterno, nel mio spazio, ciò che prima era chiuso dentro di me. Quello che ho capito in questi due incontri, credo che mi servirà ad avvicinarmi di più ai miei alunni per entrare più facilmente in relazione con essi, capendo, dai movimenti del loro corpo, ciò che nascondono dentro.

mary - 9-10-2002 alle 16:56
Il corpo è poesia! Devo crederci. Voglio crederci. Il corpo parla. Il corpo racconta… Io gli ho dato raramente la parola e, se l’ho fatto, non l’ho fatto parlare a lungo. E allora, quali alfabeti avrà appreso? Forse usa ancora i geroglifici! Non ho avuto, si capisce, un buon rapporto col mio corpo. Dopo aver curato, però, troppo a lungo la mente, lo spirito, l’analisi introspettiva, mi trovo oggi a fare i conti con un corpo che vuole parlare, che vuole occupare uno spazio vivo. Vuole recuperare emozioni! Sono passata attraverso il teatro, l’altro, quello di rappresentazione. Ora so il perché. Volevo uscire dal mio corpo ed entrare in altri cento corpi diversi, più gradevoli, più graditi. Ma per farlo… avrei dovuto conoscere meglio il mio, capire le sue rigidezze, i suoi blocchi, la sua voglia di nascondersi… e superarli, scioglierli. Essi mi avevano impedito di farlo esprimere, di liberarlo come avevo permesso di fare alla mia mente, alla mia anima. Sono qui perché voglio cominciare a muovere i passi giusti verso la “mia integrazione partecipata” quella del mio corpo e del mio spirito: Vorrei arrivare a dire anch’io : “Il mio corpo è poesia”. Grazie a tutti voi. Grazie Antonio!

lucetta - 9-10-2002 alle 17:00
Ho sempre pensato al teatro come forma di recitazione da parte di un soggetto che interpreta una parte, che si cala in quella parte, che non è se stesso, ma finge di essere l’altro. Ho scoperto un teatro nuovo, un teatro che aiuta a tirar fuori le mie emozioni, ad essere più me stessa, io. Al momento mi sento più leggiadra; ero io, ieri, in volo in uno stormo di uccelli.

jolanda - 9-10-2002 alle 17:04
L’esperienza di partecipazione teatrale, realizzata, mi ha dato modo di pensare a quanto, molto spesso, diamo importanza alle apparenze e non all’essere persona. Molti sono i condizionamenti che noi adulti abbiamo, che ci portano ad essere convenzionali e che ci obbligano a determinate scelte. Giocare per giocare, come fanno i bambini, crea in molti adulti disagio e apprensione, perché non vogliamo che “l’altro” che ci guarda ci giudichi. Sono maestra in una scuola dell’infanzia, progetto e organizzo le attività e le esperienze con i bambini motivandole con il gioco, non potrei altrimenti. A volte però, i giochi che si fanno non sono spontanei e diventano routine quotidiana, queste sere mi sono servite per arricchirmi come persona, per caricarmi di entusiasmo e per “RUBARE” (…)

Lucy - 9-10-2002 alle 17:07 Impressioni…pensieri…riflessioni su due giornate di lavoro. "Teatro alternativo"? Di getto, lo confesso, non ho "voluto" registrare quello che mi era passato "attraverso" il corpo e non solo…, travolgendo gli schemi, l'abitudine, la routine. Ieri sera, a conclusione di un primo modulo di esperienza, ero troppo stanca, confusa e …destabilizzata. Ho preferito rimandare a tempi migliori, più sereni, forse…Oggi lo stato d'animo non e' cambiato. Col senno di poi certamente l'emozione non è cancellata e mi sento ancora addosso l'ansia di chi si appresta a partire, anzi è già partita per un viaggio la cui meta non è ben nota e definita. Si parte, si ma dove…come…quando…? Ciò nonostante mi sento fortemente attratta e …ho già caricato il mio bagaglio!

mariantonietta - 9-10-2002 alle 17:09
Che dire quando si entra in un mondo mai vissuto, mai sperimentato prima? All'inizio ti stupisce, poi ti prende e cominci a fare, a gustare. E' stato ed è difficile sciogliersi, rompere gli schemi che ci appartengono, perché siamo noi gli "schemi"; è difficile non essere più quello che si è sempre stati, "come" si è sempre stati e, quindi, muoversi, giocare, entrare nello spazio e con esso ed in esso "sentirsi". Riuscirò a ripetere ciò, a trasferirlo nel mio lavoro, con i miei alunni?

dino - 9-10-2002 alle 17:14
Partecipo al progetto perché è coinvolta la mia classe, per un senso di dovere. Mi era stato detto che in fondo l’unica condizione era di mettersi in gioco. In effetti, è così: trovo difficoltà ma mi diverto. Chissà poi se riuscirò ad essere utile ai ragazzi. Anche in questo ci proverò.

gabriele - 9-10-2002 alle 17:28
Più che interrogarmi su quale o quali teatri siano possibili, credo che bisogna chiedersi che cos’è il teatro? Ed ancora: che cosa vuole il teatro? A cosa serve? Ma più di ogni altra cosa: che cosa vogliono coloro che fanno il teatro? Io credo che il teatro sia solo un mezzo, mi sforzo di sentirlo partecipe alla formazione di una persona, ma più lo guardo e più non lo capisco e tanto più lo trovo inutile. (…)

giuliano - 9-10-2002 alle 20:07
Uei! siete traboccanti ragazzi! Per me è la prima volta che partecipo a un Forum e devo dire che è un’esperienza coinvolgente. Ho la possibilità di leggervi tutti, dire la mia e conservare i vostri vibranti pensieri. Da quelli di Paola (non avevamo avuto più occasione di parlarne dell’esperienza di Otranto) agli altri che si sono accostati da poco alle attività teatrali. Mi sembra stia uscendo fuori un concetto che ho sempre pensato: PER INTEGRARE BISOGNA PRIMA INTEGRARSI. Ci rendiamo conto che i ritmi della nostra vita ci portano a dividere, separare, analizzare scindendo, e noi? Dove siamo? Di qui, di li? Dentro? Fuori? Meno male che ogni tanto c’è qualche occasione per sentirci (dico sentirci dal di dentro vivi e vitali). Cos’è questa? Toh! la mia mano, si, la conosco bene, quante volte l’ho usata per scrivere, per farmi la barba, per guidare, per carezzare, … ma guarda, può diventare leggera come una piuma e posso agitarla nell’aria, ma anche l’altra. Ehi, mi sono spuntate le ali!! Sto volando!!! Questo incontro con Antonio è stato vivificante un po’ per tutti visto quello che scrivete. Ora dobbiamo vivere capendo, probabilmente portare maggiormente a coscienza i nostri comportamenti e quello che essi possono provocare. Ma un altro elemento mi sembra molto interessante per me: prende sempre più corpo l’idea del “DISAGIO INVISIBILE” che poi è quello più diffuso. Accettare la diversità allora può diventare riconoscere la propria individualità ed aprirsi con essa al mondo dell’alterità. Nelle mie esperienze nel “DISAGIO VISIBILE” ho sempre pensato di trovarmi di fronte a persone che vivono in uno stato meno fortunato del mio dal punto di vista funzionale ma i loro comportamenti e il mio erano su un terreno di parità: del dire e fare qualcosa insieme superando il concetto di aiutare ma instaurando quello del cooperare ognuno con le cose che sapeva fare. Forse il terreno del fare si presta di più all’incontro tra le persone. E ho visto che di cose ne stiamo facendo!!! [Per gli insegnanti partecipanti al Corso] Ho sempre dimenticato di dirvi che con la mia telecamera vi ho ripresi nelle vostre azioni ed anche nelle vostre riflessioni senza neanche chiedervi il permesso. Non ho trovato il momento per dirvi quello che sto facendo: La mia scommessa è: Come trasformare (attraverso il film) un’esperienza personale in un’esperienza partecipata!

alstaja - 9-10-2002 alle 21:56
La mia avventura in questo progetto è iniziata solo oggi, ma mi sono accorto da subito che il livello di coinvolgimento generale è già abbastanza alto. Io stesso non ho potuto fare a meno di restare colpito dalla sincerità e dalla genuinità della testimonianza della Prof. di Taurisano. Del resto stiamo parlando di mettersi in gioco (non in mostra), di "insegnare insegnandoci" e quello di oggi mi è sembrato un valido esempio. Teatro, per me, è spesso stato sinonimo di tutt'altro. Qualcosa di connesso all'ambizione, all'esibizionismo, alla voglia di apparire ciò che non si ha il coraggio di essere. Parlo dell'esperienza professionale in senso stretto, ma ho dovuto ricredermi in fretta, scoprendo l'altra "faccia" del teatro: quella che dovrebbe stare dietro la maschera dell'attore. A volte basta uno sguardo fugace nella vetrina di un negozio perché un mondo intero ti crolli addosso. Il protagonista della notissima vicenda pirandelliana inizia a scoprirsi e a scoprire il mondo proprio così: con una rapida occhiata al riflesso di una vetrina. Quanti di noi sarebbero disposti a farlo in un mondo così anestetizzato dalle consuetudini, dai formalismi, dall'esasperazione dell'immagine e degli status simbols?! Beh, questo è un vero e proprio campo minato e la cosa curiosa e che le mine le abbiamo piazzate noi stessi e ce ne siamo dimenticati. Sono convinto della validità del laboratorio teatrale, non tanto per la sua valenza sul piano socio-culturale (che è assai concreta), ma per l'opportunità che offre a ciascuno di noi di porsi su un piano completamente nuovo, con un nuovo punto di vista: non quello dell'attore ma, questa volta, quello della maschera. "Perchè non dello spettatore?" vi potreste domandare. La mia risposta contempla, in effetti, proprio quel nuovo punto di vista: penso che porsi nei confronti degli altri non significhi indossare una maschera per apparire come vorremmo che "gli altri" ci vedano. Piuttosto fare una scelta coraggiosa e costosissima: svelare la nostra identità, guardandoci allo specchio ed, in primo luogo, (ri)conoscendoci; amandoci nuovamente e prendendone coscienza aprendoci al mondo così come siamo. Qual'è il rischio? Lo sappiamo benissimo! Le critiche altrui ci potrebbero distruggere. Ma gli "altri" non siamo noi?! Forse è questo il motivo per cui la nostra immagine riflessa ci piace sempre di meno. Credo che sia il presupposto che conduce alla proliferazione di programmi spazzatura (evito di fare nomi, ma li trovate su tutte le reti televisive) nei quali i nostri figli si identificano con una velocità e totalità allarmanti. Che fare allora? Questo progetto è una risposta plausibile a tutte queste domande e, probabilmente, a tante che ne scaturiranno. Partire da noi per donare agli altri, donarsi agli altri. Forse è questo il teatro che ho scoperto; forse è questo teatro che ha scoperto l'identità dietro la mia maschera.

Tonia - 10-10-2002 alle 22:18
Sono sempre stata diffidente,a volte impaurita,da questo modo di "rapportarsi"con gli altri,ma come tutto ciò che poco si conosce, mi affascina e mi incuriosisce.Nei due incontri qualcuno mi ha fatto cadere un po’ di (pre)giudizi...non tutti... - L'alfabeto non è stato creato per scrivere poesie - Questa frase mi ha aperto una porta...staremo a vedere.

carlo - 10-10-2002 alle 23:10
gli interventi di antonio viganò, in particolare quello nella mattinata del 9 ottobre con gli studenti del corso di laurea in scienze e tecnologie dello spettacolo, mi hanno fatto riflettere e ripescando alcuni appunti presi con il mio palmare, rilascio qualche traccia qui.

La prima considerazione riguarda le definizioni come "teatro sociale", in cui possiamo far rientrare questo progetto sull'integrazione partecipata.

Antonio dice "la parola teatro basta da sola" per intendere, credo, che il teatro è teatro e basta e gli aggettivi a volte non servono

ma c'è un ma

ha ragione anche se delle volte le parole ci aiutano a centrare alcune sfumature, importanti, almeno per noi, qui

il teatro sociale, lui stesso l'ha suggerito, sulla base di un'esperienza consolidata in anni di lavoro con gli Oiseau Mouche, il gruppo di danza francese composta in parte da portatori di handicap, accade quando sovrapponiamo questa parola ad un intervento di carattere sociale, come quando si opera con persone soggette ad handicap.

A questo punto il suo ragionamento fa un salto di qualità, quando afferma di lavorare "sul corpo poetico", quando cioè il lavoro fisico interviene sullo sguardo spiazzandolo , rivelando "altre prospettive." E dice che il disequilibrio vale sia per l'attore normodotato che per quello che ha problemi di mobilità. Qui chiama in aiuto un libro importante: "Il corpo" di Galimberti. L'inquietudine o il dolore che si evoca con il corpo può arrivare a riscattarsi in un atto poetico.

Emblematico in tal senso il lavoro di Pippo Delbono (reduce di un successo notevole al Festival teatrale di Avignone), un regista (ma non solo) che ha trovato in Bobo (un microcefalo che ha incontrato al manicomio di Bisceglie e che da allora è in compagnia a tutti gli effetti). E' diventato un attore che quando entra in scena produce un campo d'attrazione inesorabile.

Antonio parla poi dell'alfabeto coreografico che come i principi basilari dell'arte ha bisogno di togliere.

E qui cita Carriére, il drammaturgo di Peter Brook, che descrive un bambino che di fronte ad uno scultore che sta creando un cavallo gli dice: "ma tu come facevi a sapere che li dentro c'era un cavallo?"

Per concludere rilevo un altro bel concetto lanciato da Antonio: "l'attore deve essere portatore non solo di luce ma anche dell'ombra" Per intendere quanto sia importante destabilizzare piuttosto che rassicurare con le belle forme compiute lo spettatore.

Pensate solo a quanto sia importante operare sul principio dell'alterità, del pensiero divergente, sulle inquieteudini e pensate ad alcuni grandi artisti, sottovalutati in vita e morti in manicomio o in abbandono... Maestri capaci di fare dell'alterità una risorsa: artaud van gogh campana (…) Un altro ottimo spunto è poi il video "Tessitore di nuvole" che abbiamo visto tutti, studenti universitari ed insegnanti, ci sono elementi da sviluppare.

alstaja - 12-10-2002 alle 01:21
Anche una normalissima riunione con tanto di “ordine del giorno” può trasformarsi in qualcosa di emozionante. Certamente non avrei potuto immaginare gli sviluppi, durante l’incontro con i ragazzi dell’ Oistros, di quella che credevo una partecipazione da semplice “osservatore”. Pensavo che si sarebbe discusso circa l’opportunità di proseguire il progetto, avviato la scorsa estate presso una scuola di Taurisano, secondo nuove e meglio definite modalità: resoconto del lavoro già sviluppato; analisi dei risultati; commenti; nuove proposte e via discorrendo. Beh, in linea di massima è ciò che è avvenuto. Soltanto, non avevo fatto i conti con ciò che realmente si stava realizzando dinanzi ai miei occhi e, soprattutto, dentro di me. Tra le nuove presenze, oltre la mia, quelle di un ragazzo e una ragazza che, devo ammettere, hanno attratto in modo speciale la mia attenzione. Il loro rispettivo intervento, lucido e motivato, ha fatto calare nella sterile “sala audiovisivi” un alone di magia che, penso, abbia coinvolto tutti quanti. L’esperienza raccontata dal ragazzo, oltre a richiamarne in pieno la figura, descriveva con dovizia di particolari l’attività del Cantastorie che, egli stesso, ha avuto modo di praticare durante una permanenza di due anni nella bellissima città di Granada. Le atmosfere calde e fumose dei locali, forse un po’ spartani, ma assai accoglienti; la diffidenza degli astanti, meravigliati da un personaggio in parte mimo, in parte musico, alcune volte giocoliere, altre narratore. Comico? No! Ironico e scanzonato, mesto e gioioso, travolgente e disarmante nella sua semplicità. Così, mentre le sue parole sfioravano la mia mente, scorgevo quei ragazzi coraggiosi alla ricerca di una tradizione orale che si sta pian piano allontanando dalla memoria collettiva per far spazio ad iperbolici effetti speciali e mirabolanti scenografie che, purtroppo, non raccontano altro che se stesse. Li “Cunta Cunti” si chiamavano dalle nostre parti. Ma chi erano questi fiabeschi personaggi, mi chiedevo nel contempo, se non già i nostri nonni, e i loro nonni e via così fino ad arrivare in una fredda e scomoda caverna dove, alla rosseggiante luce d’un fuoco di legna, preistorici individui “cuntavano”, con concitate espressioni del corpo e del viso, la caccia a quella creatura con le corna che, adesso, li stava sfamando e che avrebbe sfamato tutte le generazioni a venire perché sulla parete di quella caverna, d’ora in avanti, assieme al disegno del cervo si sarebbe accompagnato il significato “commestibile”. Potrà apparire arduo richiamarsi a quei lontani parenti vestiti di pelliccia, ma in fin dei conti è questo il bello di un racconto: la capacità di scatenare la fantasia di chi ascolta, di suscitarne i ricordi, di costruire nuovi mondi o riproporne di passati; soprattutto la possibilità di essere tramandati e di tramandare con essi il luogo della memoria. In altre parole ciò che accomuna il teatro alla letteratura e queste al cinema, alla televisione, alla radio, alla pittura, alla fotografia o a qualsivoglia espressione dell’umana esigenza di comunicare, altro non è che la narratività: ossia la peculiare valenza insita nel significante che, mi perdoni Mc Luhan, questa volta sì, è il messaggio! Ma tornando a quanto si diceva in quella sala dell’edificio universitario, mi rendevo conto, tra una storia e l’altra, che avrei avuto ben poco da raccontare al mio turno. Avrei potuto evitare, ma qualcosa di nuovo e di bellissimo si stava facendo strada dentro di me: il desiderio irrefrenabile di raccogliere, per un istante solamente, quelle stille di vita e farle mie per sempre esclamando: mi rendo conto, per la prima volta, di non avere nulla da raccontare; le esperienze che avete vissuto valgono più di un tesoro e ora una parte di quel bottino prezioso è anche mia, per il semplice fatto di essere stato qui ad ascoltarvi in quella che poco tempo prima credevo fosse un’aula e che ora, come per magia, era un magnifico teatro.

gino santoro - 13-10-2002 alle 21:31

Interrogativi, ovvero capriole nel passato futuro

E’ bello che ci siano voci diverse. Ma quanto diverse? (…) I nuclei semantici del titolo del Progetto sono “Integrazione” e “Teatro”. L’una è specificata da “partecipata”, l’altro è dissolto da un interrogativo. Semplificando con l’accetta la risposta potrebbe essere: la vera integrazione si può ottenere non attraverso il teatro della rappresentazione, ma della partecipazione. Facile a dirsi. Ma, come, quando e con chi si può fare? Sappiamo (?) come la capacità e la voglia di rappresentare (rifare qualcosa davanti a qualcuno) si sia condensata in "teatro". Ma la capacità e la voglia di partecipare ha mai assunto forma teatrale, oppure il teatro è stato esclusivamente una galleria di forme della rappresentazione? L’uomo si è fatto attore per attrarre tutta l’energia della partecipazione sottraendola all’uomo che si fa spettatore? E qual è la natura di quell’energia? E’ forse collegata alla capacità di costruire e impersonare personaggi? Perché il titolo del progetto ci proietta nella preistoria del teatro? Solamente del teatro o anche agli albori della convivenza umana? La pratica di collocare il diverso fuori dal discorso dei normali (o dentro un discorso speciale), fuori dalle relazioni normali (o dentro relazioni speciali) è più vicina al comportamento del ‘branco’ o a quello della comunità, o a quello della società?

Qualche passo nel labirinto degli specialismi

Se il disabile psicofisico nel rapporto terapeutico con i professionisti della riabilitazione viene inscritto e circoscritto all'interno di un sistema di pratiche e di discorsi incentrati sui suoi deficit psicofisici, nel rapporto didattico, proprio del mondo della scuola, dovrebbe essere inserito in pratiche e discorsi inerenti le sue abilità e il suo vissuto fatto di esperienze e relazioni. Ma spesso la scuola non riesce a trovare un terreno che prescinda dalle etichette - diagnosi elaborate dagli specialisti e finisce col fondare ogni progetto educativo proprio su quelle diagnosi. I risultati, nella maggior parte dei casi (potrebbe essere diversamente?), non vanno mai oltre la conferma della diagnosi medica. La medicalizzazione della didattica è un processo subdolo e pervasivo perché si espande attraverso i luoghi comuni dello scientismo e dello specialismo. E’ attraverso questi ‘luoghi comuni’, indiscussi e perciò indiscutibili, che qualunque ‘progetto di vita’ collassa nelle tecniche di acquisizione (o non acquisizione) di abilità e saperi disciplinari e nelle defatiganti strategie di controllo dei comportamenti ‘anomali’ nella normale vita scolastica. Per cui, un insegnante (normale o di sostegno) che non riesce ad insegnare ad un ragazzino a leggere e scrivere, le capitali europee o la formula dell’area del triangolo, è un fallito; a meno che non possa contare su una diagnosi che ha escluso ogni possibilità di apprendere per il paziente/alunno.

Per finire, due passi nel non luogo

Qualche volta è accaduto che nel non luogo dell’arte, e in particolare del teatro, è stato possibile sospendere il potere del discorso medico e progettare un percorso di conoscenza in grado di ristrutturare le relazioni fra il soggetto diverso, disabile, folle e il mondo, dopo aver incorporato le relazioni fra il soggetto e il piccolo gruppo coinvolto in tale percorso. Questo non è accaduto nel teatro di rappresentazione. Ma contro. Contro il testo, contro i ruoli, contro i personaggi, contro il sipario, la scenografia, il regista, gli attori. Teatro come la peste, teatro della crudeltà, teatro vivente, teatro di Odino, teatro del pungiglione o del morso…Artaud, Benjamin, Pirandello, Grotowski, Scabia, Bene, Barba… una galleria d’irregolari, questa volta? Chi ci garantisce che siamo sulla via che porta al teatro della partecipazione? Riflettiamo, gente, riflettiamo.

carlo - 13-10-2002 alle 22:12
Riflettiamo sul senso del teatro come rito di partecipazione ed insieme a questo su come l'ambiente educativo possa trovare il modo per attuare dei processi virtuosi per riqualificare i rapporti di scambio culturale ed umano capaci di "tirar fuori risorsa".

E' da qui che si può procedere verso il concetto d'integrazione partecipata: trovando la misura per coniugare l'identità (sia quella soggettiva ed emozionale che quella culturale di cui si è parte, per impegno e connotazione) con l'alterità (che riguarda la ricerca dell'altro, a partire da chi è ai margini dei sistemi istituiti). (…)

Emanuela g. - 14-10-2002 alle 22:42
Il teatro, luogo e mezzo di evasione dalla realtà. Un unico luogo dove sentirsi liberi, uguali, per dare voce alle proprie tensioni, uscire dal ghetto e confrontarsi. Mezzo d'integrazione per tutti "normali" e "non", se così vogliamo definirci, un terreno su cui puoi neutralizzarti ed essere altro. Coltivare l'ascolto, ascoltarsi ma soprattutto saper ascoltare..........

lindam - 15-10-2002 alle 09:41
Mi dicevano:"Un'esperienza forte, questa! Un'esperienza che ti farà entrare in crisi, ti metterà in discussione!" Mi incuriosiva, perché mi piace mettermi in discussione: sono ancora alla ricerca di me stessa, dei miei lati forti, dei miei punti deboli. Mi credevo inibita; mi dicevo: non ce la farò mai! Ma tutto è stato semplice, forse più del previsto. Quei gesti strani! Cosa vorranno dire? Avranno un significato per lui (Viganò), rappresentano la sua storia, ma non la mia. Mi sentivo un cagnolino ammaestrato! Ma poi le parole chiave: entra nella storia!mettiti in gioco! E ho giocato. Ha giocato la mia immaginazione, la mia emotività, la mia fantasia, ed ho iniziato il viaggio. Un viaggio dentro me stessa, alla scoperta di ciò che era mio, ma che sembrava non appartenermi più: la corporeità, la potenza della corporeità e della sua espressività nello spazio. Lo spazio, il tempo! Concetti codificati nella mia mente, da me, insegnante di storia e di italiano, ma non posseduti veramente, hanno iniziato a prendere forma.

Non è facile costruire geometrie nello spazio e ritrovarsi subito dopo. E' facile perdersi, non sai dove andare, cosa fare. Ti chiedi chi sei. E intanto continuo a cercarmi, continuo a trovarmi, continuo a perdermi... Incomincio a capirmi di più? Non lo so.

Ma come capire gli altri quando si è ancora alla ricerca di se stessi?

giuliano - 15-10-2002 alle 10:43
Io credo che non si può cercare se stessi in astratto, ma insieme agli altri. Non esiste un prima e un dopo. Non ci si può preparare e poi sciorinare quello che si è pensato o le conclusioni a cui si è arrivati. Tutto ciò avviene insieme agli altri: l'alterità allora diventa una occasione di autodefinizione e di crescita collettiva! mi è difficile concepire un prima e un dopo nell'autoformazione in attività di gruppo ad approccio socio-educativo. Probabilmente si tratta di osservarsi, aprirsi al nuovo e al diverso e vedere se i nostri comportamenti cambiati provocano nuove conoscenze. Ogni nuova conoscenza, infatti, comporta un cambiamento. E' un'interazione continua! (…)

Danila - 15-10-2002 alle 19:51
Non ho alunni disabili, ma mi sembrano spesso dis-integrati.

Francesca (I superiore) la volta scorsa è andata via dopo la 4a ora pensando di poterlo fare senza un permesso. I ragazzi entrano tutti in ritardo. Sono distratti. Non amano la SCUOLA.

Oggi entro in classe con una breve esperienza di laboratorio teatrale fresca di vita che mi ha seminato qualcosa dentro. La sensazione di dover destrutturare il luogo classebanchicattedrasedie è forte, ma mi rendo conto di quanto siano confortevoli i gesti automatici come la firma sul registro (pre-contatto) o sedermi dietro la mia cattedra/barricata... Ma il bisogno è forte. In fondo l'ho voluto io il momento di rottura; nessuno mi ha imposto la partecipazione al laboratorio di teatro con mia figlia e Beatrice due anni fa, all'atelier di Alex Cormansky, e a questo corso di formazione.

Li guardo i piccoli di primo anno: i loro corpi sono distratti con una buona percentuale di pensieri FUORI di qui.

Devo prima farli entrare per poterli accogliere. Allora... Fuori dai banchi! Penso: E adesso che faccio? Con Viganò era facile. Qui comando io. Una battuta potrebbe compromettere tutto, ma sento una grande energia e non ci sarà battuta che potrà smontarmi.

Mi guardano e questa volta gli occhi sono un po' disorientati, ma non distratti. Ne approfitto.

Cerchiamo di stare ben piantati per terra Chiudiamo un momento gli occhi e pensiamo al nostro corpo, a noi che respiriamo. Ci concentriamo sul nostro respiro per escludere ciò che è intorno, per concentrarci sul nostro essere QUI,ORA. Apriamo gli occhi. Ognuno è parte di un cerchio. Se Giuseppe fa due passi in avanti il disegno nello spazio cambia. Come ci si sente dentro?...E fuori? Ne parliamo e poi scivoliamo nella rap-presentazione di noi stessi, tutti interi però... e visto che gli schemi comunicativi sono rotti, perché non farlo in francese!?!

Non voglio dilungarmi sulla mia "leziazione" , ma quello che voglio dirvi è che erano PRESENTI. Me lo hanno detto: non sono usciti con la testa nel frattempo. E so che non sono state le mie parole, ma la convinzione che c'era nella mia voce (e nei miei movimenti) a far funzionare il gioco.

Ho molti giochi in MENTE che non escludono il CORPO: entrare nelle sfere degli altri, volare, entrare in un quadro, far parlare le mani... Le mani parlano anche francese.

ritabortone - 16-10-2002 alle 14:02
(…) poco importa un quadro o che so io, importa la disponibilità alla provocazione e alla destrutturazione, credo, per una rivisitazione del fare lezione che "acchiappi" le persone intere, (…) forse la domanda non è come far entrare il teatro di partecipazione nella scuola, ma piuttosto come rendere la scuola un teatro di partecipazione, anche quando Viganò non potrà tutorarci. I ragazzi non amano la scuola, spesso, e sono distratti da mondi che a scuola non entrano, e nei quali la scuola non entra. Ma a volte la amano, la scuola, e ci entrano: quali sono le condizioni date le quali ciò accade?

mary - 18-10-2002 alle 15:26
Ripensando al video "TESSITORE DI NUVOLE"... Cercansi fili per tessere nuvole. Le conoscenze (culturali ),a volte, sembrano non bastare e spesso rimaniamo a lungo appollaiati sull'albero, sospesi tra cielo e terra. Bisogna trovare i fili, bisogna...tramare, ordire...creare il tessuto o ... cucire lo strappo. Ma il filo è esterno al tessuto o fa parte di esso? Tessitore- filo- tessuto,un "ensamble "che realizza e si realizza solo quando ogni elemento mette in gioco se stesso. Ma "con cosa" mettersi in gioco? E in "quale luogo " farlo? Un passo indietro. Domande:Cosa si "scambiano "Giovanni e Beatrice in aula? Cosa si "scambiano" Giovanni e i compagni in aula? E cosa si "scambiano" invece nel Laboratorio? Il laboratorio permette di stabilire una nuova modalità di approccio,di contatto,di incontro utilizzando libera-mente l'alfabeto del corpo. E' il corpo, nel teatro partecipato e nella sua Utopia (non luogo)che diventa il filo che cuce o ri-cuce!? Questo è il teatro che, come dice Giovanni, ci vuole conoscere. Questo è il teatro dove ognuno di noi si guarda guardando l'altro; si conosce conoscendo l'altro; si ri-conosce ri-conoscendo l'altro. Oggi,a scuola, nel nostro non luogo io e i miei alunni (2a elementare), abbiamo giocato a raccontare storie con il corpo. I bambini erano conquistati e stupiti nello stesso tempo. La voce ci ha sostenuto all'inizio, poi le mani hanno fatto da sole e...hanno raccontato di amici, di giochi, di paure,di affetti. Era comunque "raccontare storie" anche mettere in sequenza i "disegni nello spazio" suggeriti da Antonio. E...abbiamo raccolto mele,riacchiappato un uccellino che stava cadendo dal nido, pianto, disegnato il viso come gli indiani... Le parole magiche sono state,oggi, "raccontare una storia". Avevamo e sicuramente abbiamo tutti una storia, forse tante storie che il nostro corpo tiene prigioniere e che dobbiamo a tutti i costi riportare a casa.

giuliano - 18-10-2002 alle 17:53
Quando siamo ‘veri’ con gli altri, cioè quando è la nostra vita, i nostri pensieri che mettiamo in gioco, si spalanca un nuovo panorama non prevedibile, ma solo intravedibile. Ogni gioco, e quindi anche quello dell’apprendimento attraverso le attività che chiamiamo teatrali, deve avere un obiettivo, una motivazione per giungere ad uno scopo. Uno dei nostri obiettivi è quello di allargare i processi cognitivi per uno sviluppo della persona, non dimentichiamolo. Quindi il focus del nostro intervento dovrebbe tendere a partire dall’uomo come individuo specifico (soggettività) passare per l’uomo come individuo sociale (relazioni sociali, ambiente etc.) ed approdare all’uomo come individuo cosciente (conoscere i processi culturali, storici e sociali, che sono accaduti prima di noi; il mondo in cui viviamo etc. e che ci hanno portato a vivere nella situazione in cui ci troviamo oggi). Nel nostro teatro si parte dal corpo, o meglio dal corpo-mente che difficilmente mente! (che bisticcio cacofonico) Ma è solo uno strumento, non mitizziamolo. Cerchiamo di allargare il nostro orizzonte e chiederci ogni tanto che ci stiamo a fare in questa classe, in questa casa, in questa città… in questa palla che gira intorno al sole! E se ci sta bene così com’è o possiamo pensare a qualcosa che funzioni meglio. Allora le nostre azioni, i nostri comportamenti lasceranno delle tracce, delle traiettorie, delle direzioni … ma non dimentichiamoci che il punto di partenza per ogni viaggio verso la conoscenza è l’ignoto!

cipriana - 18-10-2002 alle 19:08
(…) I primi incontri a scuola, sull'integrazione partecipata, mi hanno fatto sentire tra amici, di cui non era necessario sapere neppure il nome, siamo entrati in sintonia, ognuno a cedere un poco della propria sfera privata, a prendere e restituire energia. Questo viaggio l'ho intrapreso per me, perché mi intriga, perché voglio focalizzare meglio quello che ho sempre pensato, perché non esiste il diverso, l'altro siamo noi, fortunatamente tutti un po' anormali.

gabriele - 19-10-2002 alle 09:03
ho visto dei servizi in tv interessanti. Uno trattava la pericolosità dei media nella formazione di un uomo, mentre l'altro trattava il potere nascosto della musica. Mi è subito balzato in testa l'esperimento che ho fatto anni fa nella mia scuola durante un'occupazione di cui mi resi promotore mio malgrado. Dovete sapere che nella mia scuola il "diverso" era il cosiddetto "normale", tutti avevano problemi con il mondo esterno, chi i genitori tossico-dipendenti chi in galera chi problemi mentali, direte voi ma che cos'era "nu carceru", non proprio ma ci mancava poco. Insomma con dei miei compagni facemmo un gioco ascoltammo al buio una canzone e poi cercavamo di estrarre le nostre paure...beh il risultato fu terrificante ve lo assicuro..

ritabortone - 21-10-2002 alle 21:27
Stasera sono tornata a casa molto stanca, ma abbastanza soddisfatta. sentivo che c'era tensione positiva, e mi piace. mi piace anche che si confrontino punti di vista diversi: le "regole" del teatro e le "regole" pedagogiche. troveranno un punto di equilibrio? secondo me sì. la scommessa è bella, proviamo! giorgio - 23-10-2002 alle 09:46 salve, mi presento sono Giorgio, sono un obiettore di coscienza. Oggi dico così perché quando cominciai non ero molto convinto dell’utilità dell’esperienza e mi spaventava l’idea di dovermi confrontare con problemi che non immaginavo neanche. Come avrei potuto aiutare un uomo di cinquant'anni quasi paralitico che a malapena riesce a parlare? O una sedicenne che sa di non avere speranze e che è destinata, prima o poi, a diventare come quel cinquantenne? Certo ero abituato a convivere con persone diverse, sono cresciuto con un ragazzo affetto da nanismo, ma dovevo ffrontare un mondo a parte, era diverso. Cosa avrei potuto fare? Iniziò l'avventura, malgrado non avessi il coraggio, dovevo farlo comunque, e …….. mi aiutò proprio quell'uomo che parlava a malapena: “Trattami come gli altri, non avere paura, io sono così”. Ho imparato molto e sono diverso, gli chiedevo di rincorrermi o di tirarmi un pugno e non avevo paura di offenderlo lui mi chiamava fiammifero, ho i capelli rossi, e così con tutti. Vi assicuro che la loro malattia, sclerosi multipla, non è regredita con il mio aiuto, ma non erano soli, c'era chi, con me, li rendeva partecipi della vita, semplicemente, con i mezzi che ognuno aveva a disposizione: chi guidava il pulmino, chi cantava, chi curava solo l'amministrazione e non aveva contatti con loro. Ora tutto questo perché? Mi sembra che ci sia una latente paura di non essere in grado o di mancare il bersaglio da parte di chi dovrebbe partecipare al progetto. L’ottimismo si sente, forse serve meno timore e la sicurezza che lo si sta facendo perché da soddisfazione e perché non accada che rimangano soli come è successo a Ugento, e per ogni buona ragione che ci piace. Io ho insegnato informatica a disabili e a docenti scuola superiore e il teatro l'ho sfiorato sostenendo l'esame del Prof. Santoro e per aver frequentato alcuni attori, ma mi piacerebbe poter dare una mano alla realizzazione del Cd relativo all'esperienza in corso.

ritabortone - 23-10-2002 alle 13:52
Dice Carlo le regole del web. Io mi sto chiedendo quali siano e come interpretarle, visto che personalmente non sono proprio il top della competenza telematica! Voglio dire che è la prima volta che partecipo a un forum con interesse. Altre volte ho cominciato e poi mi sono annoiata. Qui la cosa mi interessa davvero. Allora: intanto dichiaro il mio disagio a intervenire a distanza così breve dal mio precedente intervento, e mi ritrovo a pormi gli stessi problemi che mi pongo in qualunque riunione o salotto: in cuor mio commento tutti gli interventi che ascolto, e aderisco o dissento, ma poi mi sembra brutto dire sempre la mia, quindi rinuncio in attesa di cose che mi sembrino più importanti. E qualche volta finisce che i miei pensieri hanno fatto già il loro tempo, all'interno della conversazione, e non sono stati proprio detti e me ne dispiaccio, altre volte sono più coraggiosa. Certo non sono una che tace facilmente. Per quanto mi riguarda, quindi, il mio rapporto sentimentale con questo forum è esattamente lo stesso che ho con la conversazione in genere: mi piace sentire quello che dicono gli altri, se hanno ascoltato o condiviso le mie posizioni, o se invece dissentono, mi piace spiare il forum frettolosamente e spiare se la conversazione va avanti, mi piace provare a conoscere le persone attraverso quello che dicono, ecc. Certo il forum da un lato "copre", rispetto al salotto (non c'è il linguaggio mimico, l'espressione dello sguardo, ecc., dall'altro"scopre" molto di più perché ti leggono tutti e se hai scritto una sciocchezza non puoi più tornare indietro. Va be', ma in fondo, che fa? Se uno pensa di dover dire sempre e comunque cose correttissime e sacrosante, allora ha paura, se si dà come dimensione possibile anche quella di sbagliare e quindi di essere bacchettato, senza per questo perdere dignità, allora uno si sente più libero. Ma mi viene in mente una cose: se noi adulti non ci riconosciamo la possibilità di dire qualche fesseria senza paura di sminuirci, come possiamo promuovere negli alunni la convinzione che l'errore non è il MALE, ma una ordinaria condizione di ciascuno, su cui lavorare? (…)

gino santoro - 23-10-2002 alle 21:38
Il 'fare' unisce; il parlare divide, separa. Credo di sapere come si trasferiscono i concetti, ho molti dubbi sulla possibilità di trasferire 'esperienze'. Per trasferire esperienze occorre prima 'tradurle/ tradirle' in concetti? E se la 'diversità richiedesse di essere vissuta?Se rifiutasse di essere circoscritta in concetti?

giuliano - 24-10-2002 alle 21:29
Si possono trasferire esperienze? o solo i concetti? Ed ancora: Pensa e poi agisci o agisci e poi pensa? Forse è la nostra formazione fortemente razionale che ostacola un agire pensando. Mi vado domandando da un po’ di tempo se sia possibile questa condizione. Io trovo che nella tecnica dell’improvvisazione teatrale questa situazione dell’agire pensando e del pensare agendo viene pienamente realizzata. Non c’è un prima e un dopo, ma un’interazione continua, ed è proprio questo loop continuo che innesca quell’energia che provoca nuovi comportamenti e nuovi pensieri. L’uno e l’altra sono collegate naturalmente e la compresenza di entrambe (inclusa la verifica dei propri pensieri e azioni) sono segno di dinamicità, di vitalità. Riguardo al trasferire poi, dal composto latino trans – fero (portare a) questo verbo indicherebbe l’azione di passare ad altri una qualche cosa, ma occorre arrivarci e le azioni da compiere possono essere molteplici. MI sembra che questo trasferimento non possa che avvenire attraverso quelle azioni che mi sembra si possono in qualche modo sintetizzare nei verbi:

- Istruire (latino: in-struo, cioè costruire sopra l’esistente)

- Formare (l’azione creativa di dare una forma alle azioni o ai pensieri)

- Educare (latino: e-duco, cioè trarre da; far uscire le risorse. Giacché siamo tutti d’accordo che l’educando non è un vaso vuoto da riempire ma un vaso pieno da formare)

- Comprendere (latino: cum-prahendere, cioè prendere insieme, includere)

Naturalmente dobbiamo tramutare in azioni questi verbi, ma mi sembra che rendano abbastanza bene l'idea che in essi è compresa.

cipriana - 27-10-2002 alle 12:02
Cosa potrebbe accaderci di così burrascoso? Dal caos sicuramente nascono cose buone, non così dall'ordine. NON voglio sentirmi un'insegnante, NON voglio parlare di alunni, di genitori, di scuola. Intanto, gettàti per terra, con tutto il materiale che riusciamo a raccogliere o inventarci vediamo di partorire qualcosa che abbia a che fare con la creatività, poi certamente la ricaduta in classe non si farà attendere. Se non ci riusciamo noi, che senza arte né parte siamo stati scaraventati tra i banchi e ancora oggi siamo pronti a metterci in discussione, chi potrebbe riuscire?

Sabrina Fiore - 27-10-2002 alle 17:14
Pur avendo partecipato agli incontri con Carlo Infante e al forum, non avendo avuto l' esperienza diretta di Taurisano e Otranto, ci sentiamo ancora adesso delle "estranee". Non abbiamo vissuto niente che ci faccia intendere il corpo-poesia, il rapporto con i cosiddetti "diversi", l' emozione di lavorare sul campo, di questo ce ne dispiace molto. Vorremmo sentirci più partecipi, perché senza l' esperienza diretta c'è poco da dire...Infatti nel nostro primo intervento abbiamo semplicemente detto ciò che pensavamo di fare, le nostre idee; solo dopo ci siamo rese conto che avevano poco valore in confronto a chi ha avuto modo di partecipare a questo tipo di integrazione. Nonostante tutto le nostre emozioni ci portano a fare una breve riflessione: sarebbe bello un teatro che ci tenga stretti in un cerchio senza alcun tipo di rapporto professore-studente o adulto-bambino, diventare tutti bambini cogliendo le emozioni fatte di attimi. Ci è appena venuta in mente una frase di Antoine de Saint-Exupéry de Il piccolo Principe: " tutti i grandi sono stati bambini una volta. (ma pochi di essi se ne ricordano)" Ci scusiamo per l' emozione del momento ma tante volte è meglio seguire i sentimenti che scrivere le nostre idee ragionando. Forse anche questo è teatro!

lindam - 27-10-2002 alle 18:39
La prima parte del corso di Viganò è conclusa: ci ha suscitato molte emozioni; l'incontro con la Preside Bortone anche: abbiamo letto l'allegato, abbiamo riflettuto. Ma ieri era l'ora di "riflessione sulla lingua" in I D. Dovevo far capire ai ragazzi i modi verbali e ciò che esprimono: l'Indicativo un'idea certa, un fatto reale; il congiuntivo una speranza, un dubbio... I ragazzi erano abbastanza attenti, sapevano che la lezione era importante, e cercavano nella loro memoria le conoscenze già acquisite alla scuola elementare. Francesco in quel momento per loro non c'era; non c'era neanche per me e non c'era nemmeno Beatrice a farmelo ricordare. Per caso lo sguardo si è posato su di lui: era lì, buono, chiuso nel suo imperscrutabile e inaccessibile "io". Non chiedeva niente a nessuno, non dava niente a nessuno. Il corso di Viganò, l'incontro con la Preside, l'attenta e ripetuta lettura dell'allegato, le molteplici domande che ci ha posto, la mia incertezza, la mia confusione sul da farsi! Francesco c'era, non poteva rimanere lì senza dare e ricevere niente da nessuno; doveva esserci per i compagni, per me, per lui stesso. E l'indicativo e il congiuntivo sono diventati la certezza, per noi, che Francesco era seduto nel suo banco e aspettava di comunicarci qualcosa, e la speranza di stabilire relazioni di affetto tra tutti noi presenti in quel contesto. "Francesco è buono e ascolta la lezione:" "Francesco è seduto nel suo banco." "Speriamo che l'insegnante voglia bene a Francesco." "Speriamo che i compagni della I D vogliano bene a Francesco." "Speriamo che Francesco voglia bene ai compagni." E intanto Francesco ascoltava sempre più attentamente; ormai c'era, in classe, c'era, per i suoi compagni ed anche per me. Ha risposto con un gioioso: "Io voglio bene a tutti!" Non so se questo ha a che fare con "l'integrazione partecipata". Non so se questo ha a che fare con la "riflessione sulla lingua". So però che in quel momento mi sono sentita una persona che doveva rispondere ai bisogni affettivi di altre persone (e perchè non anche ai miei?!) e una insegnante che doveva creare un contesto comunicativo e di apprendimento corretto. So anche che la certezza dell'Indicativo e la speranza del Congiuntivo non verrà dimenticata facilmente dai ragazzi della I D e che quell' "io" di Francesco incomincia ad essere sempre più accessibile.

bea - 27-10-2002 alle 20:42
Da lunedì 28 ottobre partono, nelle tre Scuole coinvolte nel Progetto, i Laboratori di libera espressione previsti. Non so per gli altri insegnanti, ma per me si tratta di una ripartenza, della ripresa di un viaggio iniziato nella mia scuola 4 anni fa'. Dovrei avere, quindi, la tranquillità dei vecchi naviganti, che hanno già affrontato la navigazione, sia in condizioni di bonaccia che di tempesta. E invece non è così. Scrivo queste righe per dare un senso agli interrogativi, ai disorientamenti che mi accompagnano. So che questa partenza non è come le altre. Intanto perchè da una parte il tempo promette tempesta (vedi i tagli di risorse e personale previsti per la scuola), dall'altra però l'equipaggio è consistente. Non parto da sola. Ci sono altre persone che con me si imbarcano sulla "navicella del teatro". Sono ragazzi, insegnanti, genitori, sono i nostri "partners", si chiamano Rita, Gino, Carlo, Antonio, Maura... c'è Francesco! In partenza dal porto della Scuola verso il mare della vita. La nostra rotta sarà quella dell'integrazione, quella zona di turbolenza dove le diversità si incontrano. L'equipaggio è ben attrezzato, si sta allenando già dal 7 ottobre. Sono stati caricati i bagagli. Si parte! Terrò un diario di bordo. Cosa farò lunedì mattina quando sulla banchina del Laboratorio incontrerò i ragazzi, e Linda, Dino, Francesca, Rosanna? Cosa accadrà? Non lo so. In questo momento le incertezze superano di gran lunga le certezze, come in tutti i progetti di ricerca... come in tutti i viaggi... Alcune cose però ho imparato. Ho imparato, per esempio, che bisogna avere occhi e orecchie ben aperti. Aprire le finestre del corpo. Dare voce ai pensieri. Farli incontrare con altri corpi, con altri pensieri... Buon vento!!!

Giorgio Conte - 27-06-2003 alle 19:35
Cos'è l'accessibilità web
In generale, l'accessibilità è la possibilità di accedere a un luogo o a una risorsa.
L'accessibilità web indica la possibilità di accedere efficacemente ad un sito web in situazioni diverse. Rendere un sito accessibile non è solo una questione di software. Ne beneficiano le persone disabili e chi dispone di strumenti hardware e software limitati
L'accessibilità web, in particolare, indica la possibilità di accedere efficacemente ad un sito web, alla sua interfaccia e al suo contenuto in situazioni diverse.
Non sempre è facile costruire un sito completamente accessibile, poiché tante sono le variabili da tenere in considerazione e non esistono software o servizi che automatizzino completamente il processo.
Creare documenti accessibili non significa rinunciare a qualcosa, ma al contrario, arricchire il documento stesso con componenti che lo completano e lo rendono più adatto alla consultazione in qualunque circostanza. Ad esempio, contrariamente a quanto si ritiene con un diffuso luogo comune, un documento accessibile ai ciechi non deve essere necessariamente un documento puramente testuale. Può contenere immagini, grafici, può essere strutturato in modo razionale; basta che le sue componenti orientate alla vista siano accompagnate da informazioni alternative che ne descrivano la funzione e che non siano quindi di impedimento all'orientamento nel documento stesso. Un analogo concetto vale per la struttura del testo per la quale si può anzi aggiungere e ribadire che, se ben progettata per la navigazione da parte di una persona non vedente, ne trarranno vantaggio tutti gli altri utenti.

Il principio fondamentale da applicare ai fini dell'accessibilità è che gli autori non devono essere scoraggiati dall'usare elementi multimediali, ma piuttosto incoraggiati a farne uso in modo tale da assicurare che quel materiale che essi pubblicano sia accessibile all'utenza più vasta possibile o comunque che un elemento che risulti inaccessibile per qualche classe di utenti non impedisca l'accesso ad altre parti di un documento.
Principi di progettazione universale
Principio primo: equità d’uso
Principio secondo: flessibilità di uso
Principio terzo: uso semplice ed intuitivo. L’uso del progetto sia facile da capire, indipendentemente dall'esperienza dell'utente, conoscenza, perizia di linguaggio, o capacità di concentrazione.
Principio quarto: informazione accessibile.
Principio quinto: tolleranza agli errori.
Principio sesto: sforzo fisico minimo.
Principio settimo: dimensione e spazio per l’uso adatto a qualsiasi utente, senza limiti per la capacità di movimento, la postura e la dimensione del corpo.

Per realizzare un sito accessibile bisognerebbe abbracciare i Css per la realizzazione degli elementi di layout e sostituirli in questo alle tabelle. Così facendo, però, si penalizzerebbero gli utenti che non dispongono delle ultime versioni dei browser.
In altre parole: si aumenta l'accessibilità per una parte del pubblico, penalizzandone un'altra.
Nel medio periodo, con l'adozione massiccia degli standard, questa situazione si andrà risolvendo. All'oggi siamo però ancora nella fase del dubbio. È certamente possibile, utilizzando tecnologia lato server, creare diverse versioni del sito in base al browser dell'utente, ma quasi sempre, a meno di siti con poche pagine, si tratta di una soluzione complessa e dai costi elevati.
All'oggi vale probabilmente ancora la pena di utilizzare le tabelle con il layout, tenendo però questo tipo di tabelle il più possibile fuori dalla parte di contenuti del sito. Domani, quando potrete dare sfogo all'uso dei Css, cambierete la navigazione e l'intelaiatura della pagina, ma interverrete in modo minimo sui contenuti.

Jakob Nielsen sostiene che i siti Web debbono essere chiari e coerenti, devono permettere una navigazione semplice ed efficace, devono mantenere quello che promettono ed evitare ogni tipo di ambiguità e di ridondanza del messaggio. Tutte queste cose concorrono a formare il concetto di "Web Usability" o usabilità dei siti Web.
Ogni pagina in Rete deve consentire una navigabilità intuitiva puntando più alla qualità che alla spettacolarità dei contenuti
usabilità è quella di rendere i siti accessibili a tutti, semplici e comprensibili, così l'utente sentirà di avere il controllo e usufruire di tutte le potenzialità del mezzo; ma ciò non vuol dire che tutti i siti debbano essere noiosi e troppo piatti. Del resto se sono difficili e la gente non li può usare è inutile che siano artistici, tanto nessuno ci farà niente

Accesso ed accessibilità
L’accesso alla tecnologia non implica automaticamente che la tecnologia sia accessibile. “Accessibile” e “accessibilità” vanno distinti dall’“accesso” poiché l’“accesso” si identifica con la disponibilità di hardware, software ed infrastruttura.
L’“accessibilità” indica, invece, se e come la tecnologia può essere utilizzata dall’utente finale disabile. Un design accessibile è, infatti, quello che permette al disabile di poter utilizzare il World Wide Web o un computer in maniera funzionale alle proprie esigenze. Il design accessibile è essenziale per rendere Internet realmente universale. Un sito accessibile è spesso anche usabile.

"Un sito web è usabile quando soddisfa i bisogni informativi dell'utente finale che lo sta visitando e interrogando, fornendogli facilità di accesso e di navigabilità e consentendo un adeguato livello di comprensione dei contenuti. Nel caso non sia disponibile tutta l'informazione, un buon sito demanda ad altre fonti informative

Storiella:
Se un sordomuto avesse l'esigenza di comunicare con un cieco, come sarebbe possibile un dialogo? La risposta sta nell'alzare un dito. La condizione necessaria e sufficiente da dover soddisfare è che entrambi conoscano l'alfabeto. Se, infatti, il sordomuto tracciasse con un dito le lettere del messaggio sul dorso della mano o sul torace del cieco, quest'ultimo sarebbe in grado di interpretarlo.Avendolo compreso, potrebbe rispondere vocalmente al sordomuto che, leggendo il linguaggio labiale, a sua volta capirebbe che il messaggio è stato ricevuto; la comunicazione sarebbe così stabilita.Possiamo intendere il cieco e il sordomuto come portatori di due sistemi diversi di comunicazione, connessi tra loro per mezzo di un software adeguato.
Tra i mezzi di comunicazione disponibili spicca per la sua completezza Internet, nel quale i messaggi possono essere immessi o emessi sotto ogni forma: scritta, vocale, visuale, filmica.Ne risulta che sul web la disabilità, come condizione penalizzante, non esiste. Esiste però il problema di accedervi e di poterlo fare con semplicità, concretezza, finalizzazione.

Rita Bortone - 28-06-2003 alle 12:42
Il quaderno didattico
La registrazione di quanto accade nella classe, nel gruppo, nel singolo, diventa poi prezioso strumento di riflessione, di conoscenza, di progettazione. Documenta l’esperienza, la conserva, la rende fruibile, trasferibile, modificabile, riprogettabile.
Bastano degli appunti, non occorre eleganza per i quaderni didattici degli insegnanti.


Il quaderno didattico delle insegnanti elementari

4-11-2002 lunedì (Prima settimana di laboratorio curricolare) 2h,1/2
Brainstorming sul gioco
Gli alunni, divisi in gruppi di 5-6, alla ricerca di uno spazio scolastico in cui poter “giocare”
Individuato come idoneo il teatrino della scuola.

5-11-2002 martedì 2 h, _
Antonio Viganò e Beatrice Chiantera vengono nella nostra scuola. Viganò gioca con gli alunni nel teatrino. Gli alunni imitano Viganò

6-11-2003 mercoledì 2 h
Giovanna + alunni >>>>>>>Gioco “far finta di …” rinchiudersi in una scatola, essere il sole, essere piccoli piccoli, grandi grandi. Michael fa finta di essere un bruco, i compagni lo imitano

11-11-2002 lunedì 2h,1/2
Gioco: gonfiare lo spazio intorno e farlo diventare un enorme pallone. Michael scoppia il pallone… tutti camminano e saltellano al ritmo di una conta

12-11-2002 martedì 2h,1/2
Gioco: disegnare tante linee, nello spazio, con il corpo. Rappresentata una chiocciola. Riproduzione grafica, delle forme realizzate con il corpo, con le parole della conta. Fotografie dell’attività

13-11-2002 mercoledì 2h
Intervista all’architetto, nonno di Lorenzo Vitti, circa la progettazione di luoghi in cui giocare. Scrittura al computer per il forum.

25-11-2002 lunedì 2h
Conte / filastrocche. Docenti Ardone De Giorgi Ranieri
Andature ritmiche (con il corpo e con il gesto) con le parole della filastrocca/conta
24 alunni: in due gruppi di 12.
1° gruppo: declama la conta (c’era un gatto tutto rosa)
2° gruppo: si muove a ritmo (ritmi diversi di accelerazione e rallentamenti. Voci cavernose-cristalline)
4 gruppi di 6 alunni ciascuno.
Ogni gruppo decide di rappresentare una conta con un calligramma. Si distribuisce il materiale
Gioco a coppie: 12 coppie si muovono a braccetto a ritmo di “celtica”. Ad un segno si mettono sulla X e si abbracciano.

26-11-2002 martedì
Docenti Quarta Ardone De Giorni Ranieri
(1) 4 gruppi: al ritmo della conta si muovono nel proprio corridoio senza scontrarsi, alternativamente.
(2) Scelta di una nuova conta.Il grande gruppo declama la nuova conta: 1,2,3, Pulcinella fa il caffè, lo fa sol per te, 1,2,3. Tutti in un grande girotondo, tenendosi per mano, si gira a ritmo di conta e infine ci si accovaccia. Al centro un piccolo girotondo formato da 5 bambini gira all’interno e ripete gli stessi movimenti.
(3) Disposti in 4 gruppi schierati su quattro lati ci si muove alternativamente, due gruppi alla volta. Un gruppo declama, l’altro si muove alternativamente. Si abbina alla recitazione il battito delle mani. Si concordano i ritmi VELOCE, SEGMENTATO, LENTO.
(4) Ciascun bambino si cimenta nella rappresentazione corporea attraverso il movimento del calligramma prodotto e rappresentato nel gruppo, prima singolarmente, poi in gruppo. Modalità rappresentative: serpentina, percorso di squadrone, nelle diverse direzioni avanti, dietro, destra, sinistra. Alternanza di coppie con saltelli, strisce, piegamenti del capo. Andatura per mano circolare, ondulata orizzontale.
(5) I 4 gruppi di 6 ciascuno (1 di 7) completano il lavoro relativo alla conta ed al calligramma avviato ieri. (Si ridistribuisce il materiale)
Sottofondo di musica balcanica di Bregovic durante i lavori.
(6) Si fa in coppia il gioco inventato da Marisol: muoversi a specchio.” Se sei triste e ti manca l’allegria scacciare puoi la malinconia, vieni da me ti insegnerò la canzone della felicità. Bom bom drizza l’orecchio, scodinzola la coda, dammi le tue zampine, salta di qua salta di là è la canzone della felicità. Se sei triste… bom bom, drizza le antenne, sbatti le ali, dammi le zampine, salta di qua salta di là la canzone della felicità…”
Si rientra in classe:
Simona “mi sono divertita molto con le filastrocche, con i cartelloni e con il gioco delle crocette e con quello di Marisol”
Sara “mi sono divertita a fare le onde, muovermi come onda del mare, con i compagni”
Biancamaria “mi sono divertita col gioco di Marisol perché la canzoncina era accompagnata dal gesto e dal movimento”
Fed. De Simone “il gioco di Marisol era diverso, ci permetteva di guardarci allo specchio”
Paolo “cioè vedevamo nel compagno i nostri stessi movimenti”
Laura “mi piaceva il movimento del salto nello spazio”
Sara “parlava di una cosa molto bella, cioè l’allegria, la felicità”
Marisol “un consiglio: se qualcuno è triste possiamo cantarla, agli altri e a noi stessi”
Michael “mi sono divertito a giocare”
Andrea “è stato divertente fare tanti movimenti, le antenne, la coda, le ali”
……

27-11-2002
Docenti Giannoccaro Ardone
1. Gli alunni camminano nello spazio (andature) con la musica celtica, brano 1. Utilizzano tutto lo spazio, anche le gradinate
2. Gli alunni occupano il meno spazio possibile (si rannicchiano). Chiudono gli occhi. Sono piccolissimi. Sentono il proprio ritmo interno. Piano piano cominciano a diventare grandi, grandissimi, come palloni, si prendono più spazio possibile. Sono fino fino fino. Michael striscia sotto le gambe dei compagni.
……..

2-12-2003-06-23 Docente Quarta
Prima di presentare il quadro di Bruegel
Una piazza dove giocare:
Ci piacerebbe?
Come dovrebbe essere?
Perché la piazza?
Quali giochi potresti fare in una piazza?
(Le risposte vengono registrate sui fogli della lavagna mobile)

Visione del quadro.
Cos’è?
Alcuni dicono piazza, altri via. Ricerca dei due termini sul vocabolario. Si concorda che il quadro rappresenta una piazza.
21-1-2003
Docenti Quarta De Giorni Ardone
Riparte il laboratorio. Si estende il progetto alla sez.F
Gli alunni, a classi congiunte, prendono visione delle videocassette registrate durante gli incontri con gli attori Michaela e Filippo nei giorni precedenti alle vacanze.
Nel teatrino, gli alunni osservano il quadro di Bruegel, attraverso domande stimolo le cui risposte vengono registrate su di un cartellone.
E’ un quadro?

Perché?
Il colore>>>>>>>sfumature
L’immagine>>>>il disegno
E’ antico o moderno?
Antico
Perché?
Ambiente>>>>abbigliamento, case di un’altra epoca, mancanza di oggetti e veicoli moderni, strade sterrate
Per Chiara il quadro è triste.
Quale luogo rappresenta?
La piazza>>>>ci sono bambini che giocano, c’è tanta gente, …..
Cosa fa la gente in questo quadro?
Cosa ci dice il titolo del quadro?
Quali giochi sono rappresentati?
Quale tra questi giochi ti piacerebbe fare?
Perché hai scelto quel gioco?

27,28,30-1-2003
Rappresentazione grafica del gioco scelto dal gruppo.
Scrittura creativa di una filastrocca relativa al gioco scelto
….

4-2- 2003
Alunni a classi congiunte nel teatrino
I bambini, a piccoli gruppi, concordano l’animazione della filastrocca prodotta.
8 gruppi, 8 filastrocche, 8 rappresentazioni

Pierandrea la cuccagna
Diletta la pentolaccia
Stefano l’uccellino in gabbia
Chiara nascondino
Lorenzo P. moscacieca
Lavinia nascondino
Gabriele sediolina
Sara N. trenino
I bambini spettatori danno suggerimenti ai compagni circa i movimenti con cui animare le camminate relative alle filastrocche…
Suggerimenti per il trenino:
comincia sara, poi si aggiungono altri vagoni. Il trenino ha un solo vagone, poi salgono i passeggeri con la valigia . I bambini “vagone” aprono lo sportello (le braccia) e accolgono un passeggero di un altro gruppo. In questo odo il trenino accoglie, si arricchisce e si integra, al suo interno, della presenza di altri e diversi passeggeri…Ogni vagone si ferma alla stazione (3 fermate), recita la filastrocca (un pezzo), apre la porta, salgono i passeggeri, il treno riparte sempre più lungo…Il numero delle fermate e dei vagoni rischia di escludere alcuni passeggeri. A questo punto Lorenzo A. recita la sua filastrocca e dichiara che il suo vagone prende tutti i passeggeri esclusi. Il treno riparte completo di tutti i passeggeri e percorre tutto lo spazio scenico che ha a disposizione. Ecco il treno lungo lungo… bravi, bravissimi!!!
N.B. Siamo stupite, sbalordite! I bambini hanno trovato, sperimentato, realizzato, da soli, la strategia dell’accoglienza totale di tutti i passeggeri, e poi… e poi sono diventati una cosa sola, un unico elemento che si muove armonicamente sotto i nostri occhi!

6-2-2003

Pausa di riflessione: circle time

Rodari: è più bello fare scuola ridendo che piangendo
E’ più bello fare scuola giocando che studiando - se giochiamo senza studiare impariamo solo a giocare – se studiamo e non giochiamo impariamo a studiare senza divertimento – se studiamo e giochiamo impariamo tutte e due le cose – studiare senza divertirsi significa diventare secchioni – tutta la scuola giocando non mi va, bisogna fare tutte e due le cose -in questo momento stiamo facendo scuola, ma non nel solito modo, stiamo gio-studiando – stiamo facendo il gioco dello studio – stiamo giocando però è più bello, è diverso – stiamo facendo scuola, giocando, conversando, mischiando le materie –
……

Rita Bortone - 28-06-2003 alle 12:50
Il diario di Gabriella
Gli insegnanti non scrivono quasi mai. Voglio dire: scrivono programmazioni, elencano obiettivi, formulano giudizi, stendono relazioni finali. Ma hanno perduto (se lo hanno avuto!) il piacere di scrivere per sé, per raccontare, per commentare, per divertirsi, per sostenre un’opinione, per entrare in contatto, per esprimere emozioni o sentimenti. Non scrivono quasi mai, gli insegnanti.
Correggono solo le scritture di altri.
Con questo progetto sosteniamo che la scrittura libera fa molto bene ai ragazzi, e che nei ragazzi va pertanto promossa ed esercitata. Ma non fa bene anche agli adulti?

Dal diario di Gabriella
3-10-2002Ma chi me lo ha fatto fare?
Integrazione. Partecipazione vissuta. Teatro di partecipazione. Avere il coraggio di sentirmi destabilizzata. La ricerca e gli “attori” della ricerca. Smascherarmi e riflettere criticamente sul modo in cui gestisco il mio ruolo. Trasferibilità del processo. Libertà di pensare. (R. Bortone 3-10-2002)
Sintesi storica dell’integrazione. Dalla 517 all’ultima normativa. Vivere il progetto in maniera partecipata. Essere attori e spettatori contemporaneamente. Lavoro complicato, difficile, azzardato. Laboratorio di formazione, laboratorio di applicazione, laboratorio di produzione. Gneralizzazione dell’esperienza. Semplice: partire dal quadro di Bruegel “Les joeux des enfants”, elementare e media, partire dal quadro di Bosh “La nave dei folli”, la superiore. Ma chi me l’ha fatta fare?

8-10-2002
Mi sentivo serena, mi sentivo appagata. Avevo deciso di concedermi una pausa. All’improvviso, la trappola! Aiuto, soffoco. Fatemi uscire.
Il mio corpo, il mio spazio. Lo spazio. Ci sono, qui e ora. Parallele, corridoi, codice, alfabeto. Le mie mani parlano, raccontano. Ma volete star zitte? Non capisco. Mi sento confusa, agitata. Vorrei allontanarmi, ma mi sento attratta. Vorrei distaccarmi, ma mi sento coinvolta. Vorrei fuggire, ma non ho voglia di farlo. Sto scrivendo un’altra pagina della mia storia.

10-10-2002
I primi tre giorni di formazione sono appena finiti. Chi è Viganò? Che vuole da me? Si insinua silenziosamente nella mia giornata. Il mio corpo, il mio spazio.
Però il computer no,eh! Non chiedetemi anche questo! …

8-11-2002
Sono a casa in congedo per salute, qualche giorno di assoluto riposo, ha detto il medico.
Una provvidenziale indisposizione mi ha sottratta al secondo modulo di formazione. Non mi dispiace affatto, anzi sono contenta.
Ho bisogni di questa pausa forzata per riflettere: continuare ad andare avanti o ritirarsi? Mettersi ingioco o mollare tutto?
Viganò, Infante, Santoro: destabilizzazione. Bortone: carisma, motivazione.
Credo sia meglio temporeggiare.

5-11-2002
Pe r Rita Bortone (via forum?)
Cara Rita, scusa l’ardire ma mi piace darti del tu per via telematica, è bello il tono confidenzilae che mi sembra possibile instaurare con questa modalità. Mi chiedi di riflettere sull’esperienza in corso e che mi vede coinvolta in qualità di insegnante di sostegno. Mi chiedi se sono contenta di aver aderito al progetto, non lo so, ma ci sto provando. Ho vissuto l’adesione con molta sofferenza, mi sentivo soffocare, la percepivo come una trappola… I rpimi tre giorni con Viganò sono stati terribili. Facevo molta resistenza, mi sentivo destabilizzata. Poi è successo qualcosa. Non so dire quando come e perché. Ma ho sfrondato le mie resistenze e mi sono messa in gioco. Ho giocato per davvero e mi è piaciuto. Ho capito che stava prendendo forma un altro segmento della mia (lunga) storia professionale e della mia persona globale, con pregi e difetti che sento di avere. La formazione sta arricchendo il mio lavoro perché valide sono le risorse professionali con le quali si sta costruendo la ricerca. Le esperienze pregresse nel campo dell’integrazione e le modalità didattiche sempre utilizzate in stretta collaborazione col team del modulo hanno trovato forti conferme in quello che si sta sperimentando. E’ una gioia vedre gli alunni tutti partecipare alle attività proposte: sono emozionata. Ma ora ti chiedo: quanto le mie emozioni ti emozionano? Io ti sento molto vicina. Gabriella

5-12- 2003
2 ore con Filippo e Michaela >>> Dumbo
Riscaldamento: piede ginocchio bacino spalle gomiti testa mani
Camminare nello spazio con il “diamante” in vista
Dire una parola di forza (bosco) ed una di dolcezza (miele) accompagnandole con un gesto “corporeo”
Camminare, poi fermarsi al centro (davanti ai due attori) e pronunciare un desiderio ma con ironia (vorrei che mio figlio… intraprendesse la carriera politica)
Camminare, fermarsi al proprio numero. Ripartire, dopo che tutti sono fermi, uno per volta.
DUMBO SAMBICHI …

2 0re con la preside Bortone e il Prof. Santoro
Sono contenta di avere aderito al progetto? Perché?
Sono soddisfatta di me? Perché?
Cosa mi sta dando?
Gli alunni sono contenti?
Cosa sta dando a loro?
I genitori sono contenti? Perché?
Le risorse professionali sono adeguate? Quali aspetti dell’integrazione si stanno o non si stanno affrontando?
Quanto di ciò che si sta facendo è trasferibile e come?
La preside chiede di mettere per iscritto le riflessioni.
Chiarisce la funzione del forum come sistema interattivo di comunicazione
Riflettere sul perché qualcuno si “è ritirato”

23-1-2003
Sono trascorsi quattro mesi dall’inizio dei lavori. Volati!
Formazione dei docenti e laboratori con i ragazzi.
Questi, finalmente, mi hanno chiarito le idee. Mi piace lavorare con i bambini, mi dà risposta a tanti perché. … occasione “per costruire le esperienze su cui fondare le conoscenze”…e la crescita professionale e perosnale.
Riesco a comunicare con l’alunno in situazioni non formali e con i mezzi che a lui sono più congeniali (movimento parola gesto voce).
La ricerca, così come io intendo viverla, mi sta dando tanto: si basa su una grande fiducia nella persona e nelle sue possibilità di dare un senso su quanto va sperimentando. Non avevo previsto questo, non lo avevo messo in conto. Ma è quanto sta avvenendo: è un tappeto di significati che si srotola man mano che si va avanti.
Gli alunni sono entusiasti della proposta di lavoro, vissuta attraverso l’esperienza del gioco…. Il laboratorio diventa così un pretesto per comunicare, per esprimere, per capire, per conoscere gli altri e se stessi; per maturare e migliorare il rapporto con gli altri e con se stessi …
Non so se e quanto i genitori dei bambini coinvolti siano contenti, ma pare di sì… So per certo quanto sono amareggiati i genitori dell’altra classe, quella degli esclusi.
E allora, anche qui, entra in gioco la nostra professionalità, la nostra responsabilità… Estendiamo il progetto alle due sezioni del modulo 3 E/F, con un carico di lavoro raddoppiato (6-8 ore in una sezione, 6-8 ore settimanali nell’altra); si destinano ai laboratori curricolari tutte le ore delle tre educazioni (motoria, musicale, all’immagine); veniamo ricompensate dalla gioia e dall’entusiasmo degli “esclusi” (3 F).
Viganò, Bortone, Infante, Santoro, Ughi, Sapienza, Stanzak. Ora li conosco e li riconosco come risorse di qualificata valenza… La proposta di lavoro da loro tracciata va nell’ottica della creazione di un gruppo che operi a favore della crescita cognitiva, emotiva, relazionale di ogni partecipante Ed io lo condivido. Estendere il gioco teatrale agli adulti, e ad adulti e ragazzi insieme, permette a ciascuno di acquisire, rafforzare, modificare la percezione del mondo e di sé …
Ho riletto la Rivista HR 2000: “Nella dimensione piacevole del gioco teatrale il bambino, il ragazzo e perché no, l’adulto recuperano stimoli e motivazioni per comprendere e apprendere; mettono se stessi in ciò che fanno, possono conoscersi e ri-conoscersi all’interno di un gruppo che valorizza e rispetta le diverse personalità … Il gioco teatrale realizza la dimensione comunicativa e la relazione interpersonale in cui docente e alunno, adulto e adulto, si trovano impegnati a mettersi in gioco e a confrontarsi…. Il gioco teatrale recupera e ripristina capacità presenti in ogni persona: la capacità di sentirsi, di ricordare, di immaginare, di porsi in relazione con l’altro, di essere se stessi, di capire gli altri … Il gioco teatrale come viaggio alla ricerca dell’altro per riconoscerne e accettarne la diversità, per sentirla risorsa necessaria per la costruzione di forme di sapere condivise …”

27-2-2003
… la struttura rigida della scuola tradizionale, nella gestione degli spazi e dei tempi, non favorisce un contatto profondo e un reale scambio di esperienze…
E allora??
Incontriamoci nello spazio e nel tempo del teatro dove creare un clima collaborativo e di fiducia, dove costruire una comunità-classe che valorizzi le diversità, le risorse, le energie di tutti e di ciascuno, dove superare stereotipi e pregiudizi, dove allargare la mappa del mondo di ciascuno di noi…
“E’ meglio fare scuola ridendo che piangendo” dice Gianni Rodari

29-3-2003
VigotsKij denomina “area di sviluppo potenziale” quell’area nella quale si intravede non quello che il bambino sa già fare, ma quello che sarà in grado di fare con l’aiuto di un adulto”. Nell’esperienza in corso si sta verificando proprio questo. Il laboratorio teatrale ci dà l’occasione di sperimentare quello che tutti, adulti e ragazzi, possono sviluppare in un reciproco scambio collaborativo … In questo spazio, situazione nuova e decontestualizzata rispetto all’ambiente specificamente scolastico, ho osservato i bambini tutti, disabili e non … giocare con le proprie emozioni senza ansia e timore… in questo spazio tutti i bambini hanno spontaneamente usato modalità espressive diversificate…

12 – 4 2003
… con trepidazione assisto giorno dopo giorno alle metamorfosi in atto: gli alunni della classe coinvolta fin dall’inizio, precisini, perfettini, formalini, poverini (di spirito d’iniziativa, di creatività, di fantasia), sembrano essere usciti dalla gabbia comportamentale che li costringeva ad agire sempre allo stesso modo. Si sono svegliati, sono più vivi, sono più veri. Gli alunni della classe inizialmente “esclusa” (vivaci, pronti, fantasiosi, creativi, affettuosi, critici, combattivi) hanno fatto in modo –non so come, non so quando – che noi docenti allungassimo anche a loro il progetto di ricerca…

26 – 4- 2003
… e che dire poi degli alunni seguiti dai docenti di sostegno? Nello spazio del “gioco teatrale”, in un contesto quindi libero dagli schemi rigidi istituzionali (intendo aula e contenuti disciplinari), hanno giocato con gli altri, hanno agito individualmente e come mebri del gruppo, hanno scoperto che anche il gioco libero ha bisogno di regole, hanno parlato ( a voce bassissima, ma non fa niente), hanno imparato a rispettare i ritmi degli altri e a far conoscere i propri, hanno inventato (strisciare come un bruco…), hanno ridimensionato l’instabilità attentiva, motoria e di concentrazione, hanno interagito con gli altri facendo capolino dagli atteggiamenti di isolamento e di chiusura, hanno controllato (non sempre, ma va bene così) l’impulsività e l’intenzionalità del disturbo provocatorio. Ma soprattutto hanno provato grande godimento, sono stati felici di poter realizare tante cose, filastrocche, disegni, calligrammi… nel piacere dello stare in gruppo…

30-4-2003
…E’ possibile che tutto questo abbia poi una ricaduta sullo sviluppo e sull’apprendimento di questi bambini? Credo di sì. Il tempo ci darà ragione. Al momento è cresciuta senza dubbio la motivazione e l’autostima, ma non solo: si notano miglioramenti nel linguaggio, nella costruzione frastica, nel disegno rappresentativo, nella lettura, nella produzione di idee…
… questa esperienza è stata un buon angolo di osservazione per progettare interventi futuri …
la sua valenza pedagogica non è tanto nel raggiungimento o meno dei nostri obiettivi, quanto nel percorso che tutti insieme abbiamo fatto…



Rita Bortone - 28-06-2003 alle 12:55
Problemi in corso d’opera
appunti in data 13 ottobre 2002

Problema
I docenti hanno seguito la prima fase del laboratorio di Viganò e ne sono rimasti molto coinvolti. Traccia delle loro risposte emotive all’esperienza è nel forum aperto da Infante.
Ora sono imminenti i laboratori che gli stessi insegnanti, di sostegno e curricolari, devono attivare in classe, promuovendo attività che, opportunamente documentate, dimostrino la validità dell’ipotesi su cui si fonda il progetto: “la qualità dei processi di integrazione scolastica ha tra le sue condizioni la partecipazione vissuta della comunità che interagisce” (più o meno è questa, non ho il testo a disposizione).
Le ipotesi di lavoro preannunciate da Viganò prevedono lavori di animazione a partire dai due quadri di Bruegel e di Bosh.
La seconda fase laboratoriale è prevista per novembre, ma se non si comincia subito l’attività didattica non si fa in tempo ad esaurirla nei tempi stabiliti.
Tra i docenti c’è ansia e confusione sul da farsi: il contesto di lavoro inusuale, finalizzato a validare delle ipotesi piuttosto che a perseguire obiettivi didattici (il lavoro è una ricerca), la mancanza di chiarezza su spazi d’azione liberi e vincoli nazionali, la richiesta di una progettualità da esprimersi fuori dai binari codificati, il necessario confronto fra scuole, genera il bisogno diffuso di riflessioni congiunte e di chiarificazioni.

Come dunque intervenire, in qualità di responsabile del progetto, per rispondere efficacemente ai bisogni dei docenti?

Proviamo a condividere meglio i presupposti e i significati contenuti nell’ipotesi:
La qualità dei processi di integrazione scolastica ha tra le sue condizioni la partecipazione vissuta della comunità che interagisce”

Prima domanda

1). Cosa intende ciascuno di noi per partecipazione vissuta?
La risposta a questa domanda è determinante, perché la validazione o la negazione dell’ipotesi iniziale non può avere come metodologia dimostrativa null’altro che la costruzione di contesti di partecipazione vissuta, che si possano documentare come prova di efficacia, che risultino cioè più efficaci, ai fini dei processi d’integrazione, rispetto a contesti non caratterizzati da partecipazione vissuta.
Comincio io a dare una mia risposta, dato che la formulazione dell’ipotesi è responsabilità del “Galateo”.

Per partecipazione vissuta io intendo quel modo di prender parte (a un’azione, a un contesto relazionale, a un fatto, a una situazione, a un processo), che coinvolge la persona nella sua globalità (mente, corpo, affetti, relazioni, emozioni, valori) e nella sua storia (esperienza di vita, identità costruita).

La mia formazione professionale mi genera la convinzione (credo condivisa da molti di voi) che la esclusione o la penalizzazione di qualcuna di queste dimensioni nei processi di crescita diminuisca il potenziale di apprendimento e di sviluppo di ciascuna persona e ne limiti o ne ritardi i processi di costruzione identitaria.

Se questa convinzione ha una sua validità con riferimento alla singola persona, a maggior ragione sarà valida per i processi d’integrazione, che sostanzialmente richiedono (anche questo ci trova senz’altro tutti concordi) il “riconoscimento” reciproco delle persone per quello che esse sono e diventano (voglio dire nel loro divenire e crescere) come soggetti globali.

Penso dunque che l’apprendimento e lo sviluppo, obiettivi istituzionali della scuola, avvengano tanto più positivamente quanto più attive sono, ed equilibrate, le dinamiche cognitive, motorie, affettive e relazionali interne a ciascun alunno.
Conseguentemente penso che l’integrazione, anch’essa obiettivo istituzionale della scuola, avvenga tanto più positivamente quanto più si attivano, tra persone globali, relazioni di riconoscimento e di scambio funzionali ai singoli e al gruppo.

Da queste convinzioni dovrebbe derivare che, nella scuola pubblica, ogni contesto d’apprendimento, per rispondere ai bisogni della società e delle persone , deve configurarsi:

∑ come contesto comunicativo che coinvolge (tocca, cattura, attinge a ) i diversi ambiti delle persone globali, creando le condizioni per le loro relazioni interpersonali;
∑ come luogo di utilizzo implicito ed esplicito delle esperienze e delle storie individuali, del loro riconoscimento, della loro “valorizzazione” da parte del gruppo;
∑ come luogo di azione/costruzione di nuove esperienze, e di trasformazione di significati logici (gli oggetti d’apprendimento disciplinari e/o trasversali) in significati psicologici della singola persona (significati cognitivi o affettivo/relazionali o fisici o valoriali o tutti insieme); (Ausubel)
∑ come luogo di piacere, inteso non riduttivamente come momento ludico, ma come momento di risposta a bisogni profondi, espliciti o impliciti.

Penso che un contesto d’apprendimento che risponda a tali caratteristiche, mentre promuove le persone globali a livello individuale e in relazione, promuove anche i processi d’integrazione.

Seconda domanda

Perché il teatro di partecipazione e la scrittura libera?
L’ipotesi del progetto, così come è stata formulata, contiene in sé una prima risposta: il teatro, se è teatro di partecipazione, promuove …., e la scrittura, se è libera forma comunicativa …., promuove ………. (v.progetto)
Se vogliamo considerare queste due affermazioni come ipotesi da verificare, siamo già a posto, perché siamo in parecchi ad aver sperimentato l’efficacia di queste due attività ai fini dell’integrazione.
Il problema in cui ci stiamo imbattendo, però, nasce dal fatto che il nostro progetto prevede la realizzazione dei laboratori di teatro e di scrittura non solo in spazi extracurricolari ( da un lato “protetti” quanto a dinamiche relazionali e dall’altro “liberi” da vincoli contenutistici e spazio/temporali), ma anche in spazi curricolari, con la partecipazione di docenti disciplinari, “legati” da vincoli collegiali al raggiungimento di definiti risultati cognitivi, e peraltro in possesso di competenze diverse rispetto a quelle, più specialistiche, degli insegnanti di sostegno.
Ritengo cioè che la scommessa da giocarci stia non nella dimostrazione dell’efficacia formativa del teatro di partecipazione e della scrittura libera, quanto piuttosto nella dimostrazione della conciliabilità di teatro di partecipazione e scrittura libera con i curricoli disciplinari. Sono convinta, infatti, che i processi d’integrazione possano essere significativi se si attivano non in spazi protetti, dedicati, straordinari, magari contrastanti con gli ordinari spazi scolastici, ma se occupano tutto lo spazio scuola nella sua interezza.
(E’ per questo che ho voluto fortemente l’inserimento di tempi e insegnanti curricolari in un progetto da noi già realizzato didatticamente in ambito extracurricolare, o comunque in tempi sottratti ai curricoli disciplinari).

Il nostro nodo problematico dunque sta nella necessità di rispondere a domande abbastanza articolate:

- Data la difficoltà ( a noi nota) della scuola a promuovere efficaci processi d’integrazione scolastica
- Data la efficacia (a noi nota) del teatro partecipato e della scrittura libera ai fini della integrazione scolastica
-
Possono tali attività esser considerate paradigmi di partecipazione vissuta?
E possono essere assunte dalla scuola nel rispetto degli obiettivi istituzionali (apprendimenti cognitivi) e dei tempi ad essi destinati?
Ci va bene, cioè, che esse siano assunte solo in spazi extracurricolari, (e, in tal caso, quali i livelli di ricaduta formativa e quali gli impatti successivi?), o possono essere assunte anche in spazi curricolari?
E, in questo caso, a che livello organizzativo e temporale?
E a che livello semantico (nella loro struttura di superficie o nella loro struttura comunicativa profonda)?
Guidate da quali figure? Con quali strategie?
Quali, cioè, le condizioni di una loro assunzione nei curricoli?

Anche qui provo a comunicarvi una mia ipotesi di risposta:

Se io ho capito come funziona quello che stiamo chiamando teatro di partecipazione, mi sembra di potervi individuare alcuni caratteri fondamentali (correggetemi se sbaglio):
ß il teatro di partecipazione coinvolge la persona nella sua globalità (corpo, mente, emozioni, valori, vissuti);
ß richiede ai singoli un impegno in funzione di un prodotto comune;
ß esalta la ausiliarità delle azioni individuali, stimola e mostra interazioni;
ß promuove la ricerca personale di codici e forme comunicative;
ß libera e promuove stili cognitivi e divergenze;
ß valorizza le differenze nella loro pari dignità di risorse per il gruppo, ma esige il riconoscimento di ruoli, guide, regie;
ß nella sua narratività, è elaborativo/formalizzativo dell’esperienza, del vissuto, della storia;
ß esalta l’utilizzo della variabile imprevista in funzione di uno scopo definito;
ß esalta il problem solving e l’improvvisazione in funzione di uno scopo definito;
ß ricorre strutturalmente a strategie di brainstorming e di cooperatività.
ß ………………..(eventualmente da integrare)

Se è vero quanto analizzato finora, questo teatro può esser guardato quale paradigmatico contesto di partecipazione vissuta.
Le sue strategie possono essere guardate quali strategie paradigmatiche di un fare scuola fondato su azioni e interazioni di persone globali.

Diversa per molti tratti rispetto al teatro, la scrittura libera appare anch’essa potente strategia di narrazione e di conoscenza di sé, di forte funzionalità comunicativa/espressiva, di grande efficacia ai fini dell’autoaffermazione, dell’autostima, del riconoscimento del singolo da parte del gruppo, della promozione di identità personali e relazionali, della esaltazione delle singolarità individuali.
Meno provocatorio è l’impatto della scrittura libera con il curricolo, essendo comunque nel curricolo prevista l’attività di scrittura, anche se in altre forme. Possiamo comunque domandarci, credo, sui tempi e sui modi di un suo impiego diffuso nel curricolo.

Terza domanda

Quale funzione assume l’insegnante in una scuola che intenda offrire contesti di apprendimento e di integrazione quali quelli che abbiamo delineato?

L’insegnante, a mio avviso, conserva rigorosamente il suo ruolo istituzionale e i suoi obblighi collegiali:
∑ definendo gli oggetti/esperienze d’apprendimento
∑ progettando volta per volta i contesti d’apprendimento/esperienza (completi di vincoli e variabili possibili)
∑ guidando i processi di costruzione di significati congruenti con l’oggetto/esperienza
∑ controllando e accertando i risultati d’apprendimento, sia quelli desiderati e previsti, sia quelli eventualmente non previsti, ma ottenuti
∑ scegliendo strategie comunicative e di lavoro
∑ promuovendo/controllando/guidando le relazioni e le dinamiche interpersonali
∑ adottando e promuovendo l’uso di linguaggi e strumenti comunicativi.

Ma tutte le sue operazioni, se rivisitate alla luce delle riflessioni e delle autoanalisi stimolate dal laboratorio in corso per gli insegnanti stessi, non possono forse assumere valenze ed effetti diversi rispetto a quelli della ordinaria quotidianità?
La realizzazione di contesti e processi d’apprendimento/integrazione efficaci passa attraverso la liberazione dai vincoli di natura istituzionale e dagli impegni collegialmente assunti, o passa attraverso la conquista/riconquista/appropriazione di spazi di inventiva, creatività, divergenza, progettualità, individuale e di gruppo, di cui l’insegnante disponeva anche prima del laboratorio, ma che non sfruttava?. Questi spazi, se riconquistati e gestiti consapevolmente e intenzionalmente, non possono forse consentire orizzonti decisionali ampi quanto alla costruzione di contesti, alle strategie di lavoro, alle modalità d’essere persona che promuove persone?
Non è forse importante ripondere, meglio di quanto non abbiamo fatto nel questionario iniziale, alla domanda: cosa significa, per un insegnante, essere persona che promuove persone?
E non possiamo forse porci anche altre domande, relative al nostro modo d’essere insegnanti, sia curricolari che di sostegno? Non è forse possibile che qualcuno di voi già prima e indipendentemente dal progetto, riesca a fare una scuola che promuove persone globali in relazione? E non è utile scoprire quali sono le caratteristiche di questo “fare scuola”?

Quarta domanda

Come dunque coniugare le attività di teatro e libera scrittura con un fare scuola vincolato ai suoi obiettivi istituzionali?

Mi vengono in mente tre tipi di approcci al problema:
1.
Il teatro e la scrittura come “elaboratori” dell’esperienza scolastica, del rapporto alunno-alunno, alunno-docente, alunno-apprendimento disciplinare, docente-insegnamento disciplinare, aula-integtrazione scolastica.
In questo caso sono il teatro e la scrittura che assumono come loro oggetto di ricerca e di rappresentazione le dinamiche del fare lezione e dell’integrazione scolastica così come è; le amplificano, le mostrano; i soggetti manipolandole le scoprono, le consapevolizzano, se ne appropriano. Il fare scuola ordinario, cioè, diventa l’esperienza da narrare, su cui ricercare, produrre, rappresentare.
In questo caso gli insegnamenti disciplinari e i contesti d’aula restano immutati, vengono solo osservati e manipolati in tempi appositi. Gli obiettivi didattici sono di natura metacognitiva, metacomunicativa. I ragazzi e gli insegnanti sono attori due volte: prima sono attori della loro realtà, , poi, sotto la guida dei tutors, sono attori riflessivi, interpreti della realtà.

2.
Il teatro e la scrittura come strategie trasferibili e pervasive del fare scuola, non negli aspetti tecnici/scenici/rappresentativi, ma negli aspetti comunicativi e relazionali profondi: teatro e scrittura come paradigmi di contesti che “integrino”.
Anche in questo caso gli obiettivi disciplinari d’apprendimento restano immutati, ma il teatro e la scrittura prestano elementi di provocazione, di destabilizzazione dei contesti e dei processi, e innescano dinamiche alternative alla ordinarietà, promotrici di sviluppi integrali e di integrazioni.
In questo caso l’obiettivo didattico resta immutato, ma ad esso si aggiunge l’obiettivo cognitivo (per alunni e insegnanti), relativo all’acquisizione di un modo possibile e più efficace di fare scuola.
Il quadro, l’animatore, lo spazio, le relazioni oltre il gruppo/classe diventano variabili problematiche , destabilizzanti, che devono però finire col produrre nuovi equilibri.
Questo approccio, qualora venga assunto, può essere fortemente “dimostrativo” della validità della nostra ipotesi iniziale, e inoltre mi sembra quello che ha maggiori tratti di trasferibilità.

3.
Il teatro e la scrittura come spazi del curricolo che non entrano in relazione diretta col curricolo stesso. Svolgono il ruolo di strategie formative in sé, ma elaborano contenuti propri e indipendenti dagli apprendimenti disciplinari.
In questo caso gli insegnamenti disciplinari devono ritarare i propri piani di lavoro annuali, poiché perdono tempi di lavoro inizialmente previsti, mentre teatro e scrittura accettano di restare strategie funzionali all’integrazione sì, ma non trasferibili nel curricolo. In questo caso teatro e scrittura possono darsi il compito di osservare se i processi d’integrazione promossi al loro interno hanno qualche forma di ricaduta e di persistenza al di fuori di essi, ma rinunciano a diventare “modalità” strutturali del fare scuola. In questo caso, cioè, la scuola accoglie il teatro, ma non diventa teatro.

Il mio personale interesse è per l’approccio n.2, che ritengo abbia in sé un forte potenziale di innovazione, ma ritengo possibili e interessanti forme diverse di integrazioni e varianti.
Credo però necessarie alcune puntualizzazioni.
Viganò ha fatto una proposta di lavoro teatrale: lavoriamo a partire dal quadro …..
O.K., copie già fatte e pronte per la distribuzione, mi va benissimo. Meno bene mi vanno le prime ipotesi che ho sentito in giro, e che potrebbero (penso) fare scadere il progetto in “vecchi” modi d’essere “moderni” : io che insegno italiano descrivo il quadro, io che insegno musica gli do lo sfondo musicale, e io che insegno matematica che faccio? gli misuro la diagonale? (ovviamente sto volgarizzando, per essere ben compresa!) Mi perdonerete, ma troppe volte, in troppi corsi di formazione, ho ironizzato su chi ha creduto di fare “interdisciplinarità” facendo con i ragazzi “t’amo pio bove” in italiano e “il bue” in scienze. Voglio dire che se ci lanciamo in un’impresa nuova, dobbiamo avere sì il coraggio di destrutturarci e di cambiare, di provare, ma avendo il buon senso e il buon gusto di domandarci sempre quale è il senso di quello che facciamo, e soprattutto quale è la “regola” che vogliamo ricavare. Fare innovazioni sulla base di un’ipotesi e tenere sotto controllo i processi è sperimentazione e ricerca, fare prove senza aver chiaro dove andiamo a parare è solo perder tempo.
Credo peraltro che sia corretto sempre e comunque mettere in discussione noi stessi, ma tutelando sempre e comunque i ragazzi. In questo senso continuo a ripetere che non abbiamo mai il diritto in didattica (e meno che mai in questo progetto), di atteggiamenti goal free! Chi riesce dunque a ipotizzare un modo di utilizzare il quadro che sia interessante e produttivo di una qualche “regola” didattica utile ai fini dell’integrazione scolastica, ben venga, altrimenti faccia senza quadro! (E’ chiaro che il problema vale solo per le ore curricolari, non per le ore pomeridiane!)
Evitiamo cioè di fare forzature e banalizzazioni che, già fatte poco proficuamente qualche decennio fa, hanno lasciato l’amaro in bocca a noi insegnanti e il vuoto nelle menti ai ragazzi. Forse qualcuno di voi si offenderà per questa raccomandazione? Avete ragione, perché so che siete tutte persone in gamba, però consentitemi quel poco di attenzione che mi richiede la mia responsabilità sul progetto.
Vigano non si dispiacerà se, dovendo cominciare subito i laboratori, proviamo a darci qualche indicazione da soli, e in attesa che lui torni da noi.

Io il problema lo porrei così:
∑ devo far apprendere ai ragazzi l’oggetto X (da me già previsto)
∑ devo adottare strategie e costruire contesti che provino la validità dell’ipotesi iniziale (partecipazione vissuta della comunità che interagisce)
∑ ho a disposizione, oltre all’aula e agli oggetti soliti, anche altre risorse: altri insegnanti, altri alunni, un animatore, una esperienza di laboratorio appena iniziata, un quadro …..
∑ utilizzando tutti questi elementi, come costruisco una lezione/scrittura/teatro che possa esser definita “contesto di partecipazione vissuta” e che:
faciliti l’apprendimento dell’oggetto X
faciliti una significazione psicologica dell’oggetto X da parte di ognuno
faciliti una interazione produttiva ed un vissuto di gruppo della lezione
faciliti la espressione individuale nella lezione
faciliti il riconoscimento del lavoro di ognuno
accolga l’esperienza (la storia) delle persone
??

Mi permetterete infine di rivolgervi qualche domanda in libertà:

Come considerare il quadro? Nel suo contenuto visivo? Per qualche suo messaggio implicito? Nella sua essenza di oggetto/problema? Cosa accadrebbe se nessuno di voi sapesse niente del quadro, e un giorno ve lo trovaste in classe, a sorpresa per voi e per gli alunni, con il compito di fare lezione “assumendo” il quadro”?

Cosa accadrebbe, cioè, se un giorno l’insegnante si trovasse a dover fare lezione su un argomento a lui del tutto sconosciuto, cioè a dover fare lezione privo del potere che gli è dato dal sapere già….? Cosa accadrebbe cioè se tutti in classe fossero in condizione di parità rispetto ad un problema? Cos’è la metodologia della ricerca? C’è un rapporto col teatro di partecipazione?

Viganò è stato la guida del vostro gruppo: quali “regole” ha seguito nella sua conduzione? Quali risultati ha ottenuto? Li ha ottenuti solo a livello individuale o anche di gruppo? Li ha ottenuti per quali sue competenze? Relative al teatro, o ad altro? Vigano è unico, ma siamo proprio sicuri che non sia anche trasferibile? Perché vi faccio questa domanda?

E se la scrittura libera fosse attività costante nel curricolo? Io e la matematica; io e l’insegnante di matematica; io e la lezione di matematica ; i miei compagni e la matematica; io e i miei compagni nell’ora di matematica ; ………

E se ognuno degli alunni venisse premiato non solo per quello che riesce a imparare, ma anche per quello che riesce ad insegnare?

Quando faccio lezione, il mio obiettivo è che ciascuno impari? (“Non uno di meno”) E il gruppo, come gruppo, impara? cosa impara?

E il “parlato vissuto”, dove lo mettiamo? Ha spazio, nella mia lezione?

E la strategia del diario di bordo, per caso è trasferibile? Strategia individuale? Strategia di gruppo?

E l’insegnante tutor, in questo progetto svolge un ruolo molto diverso rispetto a quello che dovrebbe avere costantemente e strutturalmente l’insegnante di sostegno?

Credo che ognuno di noi dovrebbe fare ad alta voce le domande che gli vengono in mente, anche se sono domande difficili da fare ad alta voce……….