Antonin Artaud

L’arte di sparire
Una conversazione con Renato Curcio

E’ una rivolta silenziosa, segreta, ai confini tra antagonismo e misticismo, quella di cui tratta Renato Curcio nel suo intenso libro "Reclusione volontaria", edito da Sensibili alle foglie. Un’impresa che lo stesso Curcio ha da tempo avviato con l’iniziale "progetto memoria", una mappa ideale, storica ed emozionale, per ritrovare sguardi e parole di una generazione perduta nel terrorismo.

E’ l’ottava tappa di un percorso (la collana "Risorse vitali") che attraversa una fenomenologia definita "stati modificati di coscienza", ovvero le potenzialità espresse dall’alterità sensoriale della transe e della dissociazione psichica , analizzando sia le origini etniche, presenti, anche se rimosse, nella cultura italiana (vedi il tarantismo salentino) che quelli più contemporanei legati alla diversificata domanda di stupefacenti e all’insorgenza di "rave", il nuovo dionisismo post-metropolitano.

La reclusione volontaria significa, secondo Curcio, sparire, eclissarsi all’io e all’altro. Uscire dal mondo per andare in un altro mondo. "Da uno stato all’altro di coscienza e del corpo", un trapasso, un mutamento, un transito.

Trance dopotutto trova origine dal latino "transire".

Il libro percorre così quelle esperienze umane che in "buchi di silenzio", in rifugi solitari, in ambiti ricorrenti che vengono individuati come figure archetipiche (la caverna, il muro, il deserto, il bosco, il segno), ha scelto di sottrarsi dal mondo. Da Simone lo Stilita che per trent’anni visse in cima ad una colonna a Davide Lazzaretti (seconta metà dell’Ottocento) ritirato in una caverna del Monte Calvo, da Le Murate autorecluse (nel 1200) nelle cellette ricavate in un ponte fiorentino sull’Arno ai sufi solitari nel deserto , ai monaci ortodossi del Monte Athos, agli anacoreti dell’ordine di Camaldoli.

In questa ricognizione prende forma il concetto forte di "risorsa vitale": la potenzialità di inventare dentro di sè un "altro senso", una creazione radicale di sensibilità che offrendo nuovo "incentivo per il mutamento" rimetta in circolo energie per esplorare la condizione umana.

Questa risorsa può anche essere un veleno, riconosce Curcio, "oltre una certa misura la loro funzione si rovescia e da possibili risorse vitali diventano sostanze mortali".

La prima domanda che gli rivolgiamo è quindi questa: se quelle risorse vitali si traducono anche in qualcosa di mortale possono essere paragonate ai processi metabolici dell’omeopatia? Per cui si può guarire assumendo rimedi che contengono proprio i principi attivi della malattia?

CURCIO: "Non credo che oggi ci sia una cultura idonea ad affrontare la problematica della dissociazione psichica in questi termini. Sono d’accordo sulla metafora omeopatica , della risorsa e del veleno. Ogni risorsa e' un veleno. Il corpo che produce un'endorfina per affrontare una situazione estrema si svaluta. Sul lungo percorso nessuna risorsa resiste. Il destino dell'alcolista o dell'eroinomane é infatti segnato: l'eroina di per sé ti tira fuori da una certa situazione, e' una sostanza come tante altre, ti tira fuori, ti fa star bene, ma dura pochi minuti o poche ore, poi ci vorra' una doppia dose, poi ci vorra', per ottenere lo stesso effetto, una tripla dosa, poi ci vorra' una quadrupla dose, poi quintupla, e c'e' un punto di divaricazione esponenziale in cui la risorsa, non incidendo sul meccanismo reale ma solo sul meccanismo rappresentazionale della realta', si usura e perde la sua efficacia. E a questo punto la persona scopre la sua nuda e tetra realta' di persona bloccata, chiusa, morta in un mondo chiuso."

La tua lucida analisi intorno a questa idea di "reclusione volontaria" è certamente sostenuta da un’esperienza intensa vissuta in tanti anni di carcere.

Come hai trovato questa pista interpretativa, come hai insomma elaborato questa intuizione della risorsa vitale come opportunità di esistenza oltre i limiti di un mondo bloccato, negato?

CURCIO: "Questa ricerca nasce dopo tanti anni di reclusione involontaria e nasce dalla constatazione che le persone che vivono recluse in manicomio o in carcere o in un campo di concentramento sono sempre poste di fronte ad un dilemma: la reclusione li schiaccia, l'istituzione li uccide e quindi la prima tentazione e' la morte. Molti accettano questa tentazione e muoiono. Muoiono dicendo un "no" assoluto, totale dell'istituzione, dicono no e basta. Se tu guardi le storie delle persone finite nei campi di concentramento vedrai che prima del forno crematorio molte persone che giungono nel campo di concentramento dicono no e muoiono il primo giorno. Non aspettano che qualcuno le uccida.

Ma anche se guardi la storia piu' comune che io ho vissuto tutti i giorni nel carcere vedrai uomini e donne che dicono no, e lo dicono il primo giorno. Smettono di mangiare, smettono di dormire, smettono di bere, smettono di camminare e muoiono. Muoiono nei primi tre, quattro, cinque, sei, sette giorni. Sono morti che non si vedono da nessuna parte perche' vengono immediatamente qualificate come infarto, e in tanti altri modi .

La domanda che io mi sono posto dopo tanti anni di reclusione: perche' altri non muoiono, cosa fanno le persone che non muoiono? Cosa fanno per rimanere in vita? Che cosa succede nelle scelte che fanno queste persone nel corso degli anni e nel corso della loro esistenza? Per affrontare questo tipo problema ho cercato di specchiarmi in una scelta che persone non recluse fanno recludendosi. Racchiudendosi in un deserto, racchiudendosi in un bosco, in una casa, o in un ambiente molto particolare, racchiudendosi anche in scelte estreme.

Negli Stati Uniti d’ America, un gruppo di informatici di altissima qualita' e levatura, hanno fatto una scelta estremamente autoreclusiva, si e' chiusa prima nel mondo dei computer, poi in una villa in mezzo ad un parco, poi in un sistema di regole monastiche che definivano i comportamenti interni di quella comunita' di informatici, infine nel suicidio.

LA DERIVA TRAGICA

La scelta di autoreclusione e' una deriva tragica perche' e' la stessa deriva delle persone che hanno vissuto nei campi di concentramento e hanno sperimentato la morte in vita.

Primo Levi, per esempio, viveva in un campo di concentramento, passa la sua vita a cercare di capire che cosa ha fatto, lo scrive nei suoi libri ma alla fine si suicida.

Potremmo fare l'esempio di Bettelheim. All'inizio studiava l'autismo nei campi di concentramento, vede le persone che si sono autorecluse nel proprio corpo, nel proprio silenzio, nel proprio castello interiore, in un modo cosi' potente che li ha tenuti in vita. Ciò li ha fatti sopravvivere in quel contesto e ha prodotto nello stesso tempo metamorfosi del corpo. E' una storia di autoreclusione anche la storia degli handicappati, una storia che oggi non e' neanche piu' vista perche' rappresentata sotto la forma della santita'. Sante famosissime che nascono con handicap, figlie di famiglie patrizie che non possono essere collocate da nessuna parte, venivano immediatamente recluse, nascoste nel loro handicap. Questi mondi hanno molte cose da dirci perche' hanno la risposta fondamentale che da una persona che vive nella reclusione visibile e invisibile."

LA SCELTA DI UNABOMBER

Non tutte le reclusioni hanno un muro di cinta chiaro, sempre per rimanere in un tema che sembra molto affine al terreno su cui noi ci muoviamo.

Il caso Theodor Cachinsky, piu' noto come "Unabomber", professore di matematica a Berkeley, che a un certo punto della sua vita sceglie di rompere con la carriera accademica, con le grandi città' americane , e si mette in una capanna senz'acqua e senza luce e vive la sua vita li', scrive, opera, non e' importante quello che fa, mi interessa la sua scelta. Lui prende e va via dal mondo. E’ la stessa scelta che fa Sant'Antonio da Coma, che prende e va via dal mondo. San Filippo Neri prende e va via dal mondo, come fanno i carcerati e i manicomializzati che prendono e vanno via dal mondo. Vanno via dal mondo della reclusione ma nello stesso tempo ci restano perche' il corpo e' li'. Il corpo e' li' ma la persona non c'e' piu'. La persona e' andata in un suo mondo.

La' dove non c'e' piu' senso della vita, le persone per vivere creano un mondo di senso.

Come quell’ebreo polacco che ai tempi delle leggi razziali per sottrarsi al destino del campo di concentramento, si reclude in un fienile. Finita la guerra, passati tre o quattro anni chiuso in questo fienile con qualcuno che gli da' da mangiare, decide di non uscire piu', morira' nel 1962 sempre chiuso in quel fienile senza voler piu' avere contatti con nessuno. Alla morte si apre finalmente la portadella stanza in cui lui si era autorecluso in tutti questi anni, e si trovano cinquecento straordinarie opere che adesso sono esposte al museo di Losanna. Ma e' la stessa cosa che fa Anna Frank che si chiude in un appartamento con la sua famiglia e scrive un diario, crea un mondo in presenza di se stessa. "

Storie di morte e di sofferenza. C’è però un modo per esprimere quella domanda di alterità, ovvero quella ricerca esistenziale in cui esprimere la differenza come comportamento libero ed evolutivo. Proprio come hanno cercato di fare i movimenti giovanili sfuggendo dalle cornici mentali predeterminate in tutti questi anni. Non è forse una tensione che esiste da sempre, dal dionisismo ai raves?

CURCIO: "Intanto credo che occorra dire che questa civiltà nasce cingendosi di un muro. Le prime Città-Stato, quelle dei sumeri, poi le polis greche, le civitas della penisola italiana, sono prigioni, sono luoghi in cui delle persone, dei nomadi, ad un certo punto si chiudono, chiudono il loro movimento sulla terra e decidono che il bello, il buono, il giusto, il perfetto e il perfettibile sono dentro il muro. Fuori dal muro noi troviamo solamente il mostro, troviamo la mostrificazione di qualunque forma della vita, troviamo il deserto e troviamo il demone. Questo noi lo possiamo recuperare sia nella prima letteratura scritta greca che in tutta la scrittura anticotestamentaria. L'esaltazione del mondo chiuso, che viene visto come la città, una civilta' che e' protetta da un muro, fuori dal muro ci sono i barbari, fuori dal muro ci sono i mostri. Questo e' un primo dato culturale che ha cinquemila anni di storia ormai, che si e' fatto cosi' naturale nel nostro modo di intendere la vita da diventare invisibile. Come tutte le cose che diventano natura, che sono invece forme culturali ben precise, scompaiono dalla visibilita'. Allora, per rispondere alla tua domanda, una prima cosa che diventa molto importante e' la presenza, la capacita' di conquistare una presenza nelle cose che si vivono.

LA TRANCE COME PASSAGGIO

La seconda considerazione che credo sia importante fare è che da quando la civilta' occidentale ha costruito muri, insieme ha costruito risposte ai muri. I mistici e le trances, per esempio, sia nella societa' greca che poi nella societa' egiziana del primo cristianesimo fino ad oggi, tutti questi movimenti, sono movimenti che forzano il muro. Le donne greche regine dentro le loro case ma prigioniere e schiave di un sistema ben preciso patriarcale e rigido, non trovano altra via d'uscita che andare per i boschi e praticare riti dionisiaci di varia natura che costituiscono un movimento di trance, di transito, di passaggio, da un

mondo un mondo chiuso a un tentativo di costruire uno spazio, un mondo aperto. La trance nasce sempre come forzatura di un muro, che puo' essere anche relazionale, fino alla trance metropolitane di oggi, i rave. I rave, se noi guardiamo come si costituiscono in Europa, vediamo che sono movimenti di giovani che lavorano e vivono quotidianamente loro vita, lavorano e ad un certo punto programmano, organizzano un'uscita settimanale. Prendono e se ne vanno. Ma questi sono grandi movimenti. Se ne vanno e vanno a fare una festa, come le donne andavano a fare la festa nei boschi, come nel Salento le tarantolate fanno rispetto al tipo di esperienza che le investe in una societa' a codici maschili molto rigidi. Ma noi possiamo trovare la stessa scelta nelle persone che consumano sostanze. Una persona che sceglie di chiudersi nel mondo della sostanza, che sia l'alcol, l'eroina o qualunque altra cosa, non fa altro che una scelta di autoreclusione per uscire da una situazione in cui sta male. Dice qui sto malissimo quindi prendo e vado.

Vado dove? Ed e' questo il punto. Se vado in un mondo dove non sono io a costruire il senso, ma e' il dispositivo che costruisce il senso in cui io andro' a finire, allora vado in un altro mondo in cui io non avro' piu' presenza, perche' saro', come dire, mangiato da quel mondo."

Bene, "andare di fuori", andare dove?

CURCIO: " Andare di fuori é l'estasi. La parola estasi nasce proprio da un andar fuori, un andar fuori ... da dove? , e' questo il punto: dal luogo comune. Il nodo che costringe le persone ad andar fuori dallo spazio chiuso. Tu vai fuori perche' vivi uno spazio chiuso che ti fa male, ti ferisce.

L'andar fuori é subito e comunque a priori un bene. E' un bene inestimabile per chi vive quel tipo di esperienza nello stesso tempo e' un atroce percorso perche' ci sono situazioni in cui il fuori non e' gestito, controllato, e' gestito da altri e non e' piu' un fuori. Diventa così un gioco di prigioni continue in cui uno esce da un cancello e da un'evasione ma poi si trova chiuso in una cella ancora piu' stretta. Ed e' quello il percorso della reclusione volontaria che sto cercando di esplorare. Il percorso del sistema di prigioni, che apparentemente disegnano sentieri di liberta' e che in realta' costituiscono percorsi di morte. "

Figure come Artaud e Van Gogh hanno saputo fare della loro dissociazione chiamata anche follia una condizione di assoluta creazione artistica.

Dall’alterità del corpo e della visione può quindi essere generata una dimensione creativa?

CURCIO: "Certo, la dissociazione produce mondi.

Hai citato Van Gogh e Artaud , sono due bei riferimenti perche' consentono di ragionare un attimo su come queste due vicende umane arrivano straordinariamente ad essere messe al centro di un'attenzione estetica.

Van Gogh e' un suicidato della società, per usare le parole dello stesso Artaud.

E poi di Artaud sto per pubblicare dei quaderni che non sono mai stati pubblicati sull'elettroshock che ha subito in continuazione.

Nella loro radicalità hanno prodotto mondi.

Ma non dobbiamo dimenticare che le persone che hanno prodotto quei mondi erano persone che stavano vivendo una sofferenza personale in prigioni sociali di pregiudizio tali da porci la domanda: e' piu' importante il prodotto della loro vita o la loro vita?

Io penso che la cosa piu' importante sia sempre la vita di una persona, non il prodotto.

IL FERVORE DELL’AZIONE

Penso che sia di grande interesse il messaggio che ci da uno dei più grandi artisti aborigeni australiani il quale dipinge su foglie e si rifiuta nel modo più assoluto di passare all'acrilico e alle pitture a olio, alle tele, a oggetti permanenti, perche' dice: io non lavoro per il mio prodotto, io lavoro per la mia attivita', per il fervore dell'azione. Fare e' cio' che mi fa bene, lo faccio per quello. Allora io credo che Van Gogh dipingesse perche' gli faceva bene farlo e Artaud scrivesse e facesse le sue esperienze con il corpo perche' quello era indispensabile per tutta la sua vita.

Che a noi possano interessare anche i prodotti di tutto cio' va bene, ma non dobbiamo confonderli, dobbiamo mantenere l'attenzione centrata sulla loro vita, che era una vita che ha a che fare con il problema che ponevo prima, la reclusione volontaria e il desiderio, il bisogno, l'impulso vitale fortissimo a uscire dalle mura. Cio' che noi vediamo sono produzioni creative che hanno consentito a quelle persone di affrontare gli elettroshock, la reclusione o la denigrazione sociale. Esprimendo quella sparizione, la sottrazione a un mondo estraneo, che è in fondo stata la loro migliore arte."

Conversazione raccolta al Mediasuk di Torino, tratta da video con la collaborazione di Guendalina Vigorelli.

(Fleshout, giugno 1999)

Carlo Infante

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