L'ARMADIO
di THOMAS MANN

<< Buona sera >>, disse van der Qualen. <<Le camere…>>
La vecchia signora annuì col capo; e, sorridendo di un lungo sorriso silenzioso e pieno di comprensione, additò con una bella mano lunga e bianca, in un gesto lento, stanco e signorile, la porta dirimpetto, quella di sinistra. Poi si ritirò e riapparve portando una chiave. "Brava signora", egli pensò, fermo dietro di lei che apriva la porta, "davvero mi hai l'aria di un incubo, di un personaggio di Hoffmann." Ella staccò da un uncino la lampada a petrolio e lo fece entrare.
La stanza era piccola, bassa, con l'impiantito scuro; ma stuoie color paglierino rivestivano le pareti fino in cima. Una cortina bianca di mussola celava col suo lungo, elegante drappeggio la finestra aperta nella parete di fondo, a destra. Pure a destra una porta bianca metteva nella stanza affianco.
La vecchia signora aprì quella porta e alzò la lampada. La camera era di una nuda tristezza, con le pareti bianche e spoglie, sulle quali tre sedie di vimini verniciate di rosso vivo spiccavano come fragole nella panna. Un armadio, un tavolo da toletta munito di specchio… Nel mezzo troneggiava il letto di mogano, enorme.
<< Ha qualcosa in contrario? >> domandò la vecchia signora, accarezzandosi con la lunga bella mano bianca l'escrescenza mucosa sulla fronte. Parve quasi che lo dicesse per sbaglio, che al momento non le sovvenisse un'espressione più consueta. E subito aggiunse: <<Per così dire… ?>>.
<< No, non ho niente in contrario >>, rispose van der Qualen. <<L'arredamento è un po' curioso. Va bene, lo prendo… Vorrei che qualcuno andasse alla stazione a ritirare il mio bagaglio: ecco lo scontrino. Abbia la cortesia di far preparare il letto, il tavolino da notte… e di darmi subito le chiavi della porta di casa e di quella sulla scala… Mi procuri anche un paio di asciugamani. Vorrei fare un po' di toletta; poi andrò a mangiare al ristorante e più tardi rientrerò. >>
Trasse di tasca un astuccio nichelato, ne tolse una saponetta e, avvicinatosi al tavolo da toletta, cominciò a lavarsi il viso e le mani. Intanto, attraverso i vetri fortemente convessi della finestra, guardava giù verso le strade fangose nella luce dei fanali a gas, e più in là le lampade ad arco e i villini… Mentre si asciugava le mani, si avvicinò all'armadio: era un mobile massiccio, lucidato di bruno, un po' traballante, con una cimasa dal semplice fregio. Collocato al centro della parete di destra, era esattamente incastrato nel rientro di un'altra porta bianca, da cui si doveva accedere ai locali che avevano per ingresso la porta principale sul pianerottolo, quella di mezzo. "guarda com'è ben sistemato!" pensò van der Qualen: "sembra fatto apposta per quella rientranza." Aprì l'armadio. Era completamente vuoto; parecchie file di uncini erano infisse in alto; ma, a quanto vide, quel grosso mobile mancava del fondo. Il lato posteriore era sostituito da una ruvida tela grigia da sacco, fissata ai quattro angoli per mezzo di chiodi o puntine.
Van der Qualen richiuse l'armadio, prese il cappello, rialzò nuovamente il bavero del pastrano, spense la candela e uscì. Passando dalla camera esterna gli parve udire lì accanto, in qulle altre stanze, frammisto allo scalpiccio dei suoi passi, un lieve rumore, un suono metallico…chissà, forse si era sbagliato. Come un anello d'oro che cada in un bacile d'argento, egli pensò, mentre, chiusa a chiave la porta e discese le scale, usciva dalla casa e riprendeva la via per tornare in città.
Giunto in una strada popolosa, entrò in un ristorante ben illuminato e sedette a uno dei primi tavoli, volgendo la schiena a tutti quanti. Mangiò una zuppa di cavoli coi crostini dia pane, una bistecca all'uovo, frutta cotta e vino, un pezzo di gorgonzola verde e la metà di una pera. Mentre pagava e si rivestiva, trasse qualche boccata da una sigaretta russa, poi accese un sigaro e se ne andò. Girellò un poco su e giù, rintracciò la strada che conduceva al suo quartiere e la percorse senza affrettarsi.
La casa dai vetri convessi era tutta scura e silenziosa allorché van der Qualen aprì il portone e salì le scale buie. Facendosi lume con un fiammifero, aprì al terzo piano la porta di sinistra, quella che metteva nelle sue stanze. Posò cappotto e cappello sul divano, accese la lampada sul grande scrittoio, e qui trovò la sua valigia insieme alla coperta da viaggio e al paracqua. Spiegò la coperta e ne trasse una bottiglia di cognac; poi dalla valigia prese un bicchierino e, accomodatosi nella poltrona, terminò il suo sigaro bevendo un sorso ogni tanto. "Che bella cosa", pensò, "che al mondo ci sia pur sempre cognac". Poi andò nella camera da letto, accese la candela sul tavolino da notte, spense la lampada nell'altra stanza e cominciò a svestirsi. Capo per capo, deponeva il suo abito grigio, solido e punto appariscente, Sulla sedia rossa vicino al letto; stava slacciandosi le bretelle, quanto tutt'a un tratto ricordò che aveva lasciato capello e cappotto sul divano; andò a prenderli, aperse l'armadio… Fece un passo indietro e con la mano afferrò, dietro di sé, uno dei grossi globi di mogano rossiccio che ornavano i quattro angoli del letto.
La camera, con le bianche pareti spoglie su cui le sedie verniciate di rosso spiccavano come fragole nella panna, era rischiarata dalla luce malferma della candela. Ma l'armadio, il cui battente era spalancato, l'armadio, là, non era vuoto: c'era dentro qualcuno, una forma, un essere umano, di tale beltà che il cuore di Albrecht van der Qualen per un istante si arrestò. E riprese poi a palpitare con placidi, larghi, lenti battiti… Era completamente nuda, e teneva alzata una delle belle, esili braccia, stringendo con l'indice uno degli uncini infissi in alto. Lunghe onde di capelli bruni ricadevano sulle spalle infantili, da cui si sprigionava quell'incanto che non può suscitare altra risposta se non un singhiozzo. Negli occhi neri, oblunghi, si specchiava il riflesso delle candele. La bocca era piuttosto grande, ma di un'espressione dolce come le labbra del sonno quando, dopo giorni di pena, scendono sulla nostra fronte. Teneva le caviglie congiunte, e le gambe snelle erano strette l'una all'altra…
Albrecht van der Qualen si passò la mano sugli occhi e vide… vide anche che là, nell'angolo destro, la ruvida tela grigia in fondo all'armadio era distaccata.
"Via ", disse, "non vuol entrare… come devo dire…non vuol uscire? Posso offrirle un bicchierino di cognac? Solo mezzo bicchierino?…" Ma lo disse senza attendere una risposta, e difatti non l'ebbe. Quegli occhi sottili, lucenti e così neri da apparire senza fondo, inespressivi e muti, quegli occhi erano rivolti verso di lui, ma senza meta, come smarriti, e pareva non lo vedessero.
"Devo raccontarti?" ella disse a un tratto, con voce tranquilla, velata.
"Racconta", egli rispose. S'era lasciato andare a sedere sulla sponda del letto; il cappotto giaceva sulle sue ginocchia, ed egli vi posava le mani giunte. Teneva la bocca un po' aperta, gli occhi socchiusi. Ma nel corpo il sangue circolava caldo e dolce e negli orecchi sentiva un ronzio leggero.
Ella si era seduta dentro l'armadio, e le braccia leggiadre cingevano uno dei ginocchi, che aveva sollevato, mentre l'altra gamba penzolava fuori. Gli omeri le comprimevano i due piccoli seni, la pelle tesa del ginocchio splendeva. Con voce sommessa, raccontava, mentre la fiamma della candela danzava in silenzio…
In due camminavano nella landa, e Lei reclinava il capo sulla spalla di lui. Le erbe odoravano intense, ma già le nebbie nuvolose della sera si alzavano su dalla valle. Così cominciò. E spesso erano versi, e rimavano fra loro con rime impareggiabili di levità e di dolcezza, come talvolta nei dormiveglia delle notti di febbre. Ma non terminò bene. La fine fu triste, come se, due esseri tenendosi stretti in indissolubile abbraccio, nel momento in cui le loro labbra si uniscono l'uno immerga un coltellaccio nel petto dell'altro, e abbia buone ragioni per agire così. Questa però fu la conclusione. Ed ella si alzò in atteggiamento calmo e discreto, sollevò la dietro il lembo destro della tela nel fondo e svanì.

Da allora egli la ritrovò ogni sera nell'armadio, e ogni sera stette ad ascoltarla… Quante sere? Quanti giorni o settimane o mesi restò in quella città? Trovarne indicato qui il numero non gioverebbe a nessuno. Chi potrebbe rallegrarsi di conoscere un misero numero? E poi sappiamo che ad Albrecht van der Qualen parecchi medici non avevan dato che pochi mesi di vita.
Ella raccontava… Erano storie tristi, storie sconsolate, ma che si posavano sul cuore come un peso soave e lo facevano battere più lento e più felice. Sovente egli si abbandonava… il sangue gli urgeva dentro, e tendeva le mani verso di lei che non lo respingeva. Ma poi per diverse sere non la ritrovava più nell'armadio; e, quando tornava a poco a poco, finché lui si abbandonava nuovamente.
Quanto a lungo continuò così….chi lo sa? Chi può anche sapere se quel pomeriggio van der Qualen si era realmente svegliato ed era sceso nella città sconosciuta, o no era invece rimasto a dormire nello scompartimento di prima classe del treno espresso Berlino - Roma che, a folle velocità, lo aveva trasportato di là dai monti? Chi di noi oserebbe dare a questa domanda una risposta precisa ed assumerne la responsabilità? E' una questione molto dubbia. "Tutto ha da rimanere campato in aria…"

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