| Ciò 
          che l'uso della rete telematica può rendere possibile è creare ambienti 
          di reale comunicazione interattiva, spazi in cui la parola scritta (nonchè 
          immagini e altre forme di comunicazione audiovisiva) traduce il pensiero 
          in azione. Si tratta di un principio paragonabile (paradossalmente) 
          a quello dell'oralità, dove la parola parlata passa da un corpo ai corpi 
          degli ascoltatori in un unico spazio-tempo vissuto. In Internet si frequenta 
          un altro spazio-tempo, artificiale, ma "vivibile", condivisibile con 
          altri. Non è più il "comunicare a" proprio del massmedia televisivo 
          ma il "comunicare con", elemento che sta alla base della comunicazione 
          interpersonale. E' da questo dato che è possibile iniziare a concepire 
          l'uso delle reti telematiche come ambienti in cui attuare nuovi modi 
          di cooperazione culturale ed educativa. L'idea di realizzare nel web 
          delle esperienze in cui dare luogo allo sviluppo teorico e creativo 
          dello sguardo teatrale è da inscrivere in questa nuova orizzontalità 
          del comunicare. E' qui che "il punto di vista" può arrivare a tradursi 
          in "punto di vita": affermazione di una consapevolezza vitale, dinamica 
          che traduce un'esperienza di percezione in atto di comunicazione. Già 
          nello sguardo teatrale lo spettatore agisce, mette in gioco sé stesso, 
          esprime quindi un punto di vita scegliendo i piani-sequenza del movimento 
          scenico. Nel "theatron" telematico, espandendo ancora di più lo sguardo, 
          oltre la propria coscienza, entrando cioè in quella "connettiva" di 
          Internet, si può fare di tutto questo un "prodotto" culturale inedito: 
          un'opera che coniuga il lavoro percettivo del proprio sguardo in azione 
          con quello cognitivo in forma ipertestuale. Ci si apre insomma ad uno 
          sviluppo potenziale di riflessione che al contempo si fa comunicazione, 
          atto di nuova condivisione. Una percezione che si traduce in un'evidenza. 
          Si compie un atto che amplifica il feedback, la risposta sensibile dello 
          spettatore che fa del suo sguardo qualcosa che contribuisce a far accadere 
          teatro. Perché, non dimentichiamolo, il teatro non esiste se non è condiviso. 
          Carlo Infante Oltre 
          la contraddizione: punti critici e punti di vista 
          Non escludo che ci sia una contraddizione tra punto di vita e punto 
          di vista, o ancora meglio "punti critici" come si definisce 
          questo canale del web de La Scatola Nera. E' una sottile differenza 
          che non crea discriminanti rispetto agli stili di scrittura ma che intende 
          contribuire ad aprire una finestra su una nuova coscienza dello spettatore 
          attivo e riproduttiore di visione teatrale. In questa zona trovano spazio 
          alcuni interventi più approfonditi, alcuni pubblicati addirittura 
          su testate giornalistiche da spettatori professionisti (quelli che hanno 
          fatto del proprio "punto di vista" uno strumento del mestiere). 
          Contributi importanti alla memoria di bordo del festival Inteatro che 
          però nella struttura del Diario di Bordo avrebbero creato troppo 
          addensamento e , perché no, troppo spessore intellettuale. Carlo 
          Infante
 Cronaca 
          della Prima Giornata di Inteatro '99Sabato scorso si è aperta la ventiduesima edizione di Inteatro, 
          con tanto pubblico. Numerosi i giovani e tanti gli habitué del 
          festival internazionale che, si sa, riserva molte sorprese. L'attesa 
          di quest'anno si concentrava sui giovani belgi di quella casa di produzione 
          Victoria che un paio di estati fa presentava per la prima volta in Italia, 
          proprio a Villa Nappi, lo spettacolo evento "Bernadejte" di 
          Alain Platel. "Kung fu - Best Of", realizzato a sei mani da 
          Pol Heyvaert, Felix van Groeningen e Jonas Boel, è un defilé 
          di quaranta adolescenti, dai quattordici ai vent'anni, che non si defilano. 
          Raccontano se stessi in una manciata di secondi. Pene d'amore, disagi, 
          senso di disadattamento, crisi, manie, voglie e gusti detti con un'autoironia 
          che non manca di divertire né di disorientare quando la violenza 
          e il dolore arrivano come segni fatali. La struttura è quella 
          della passerella di moda, anche l'incedere in successione degli interpreti 
          e le pose non fanno che sottolineare la scelta stilistica, a ritmo techno 
          e volume assordante. Tiene legato il tutto l'incessante proiezione di 
          video, molte delle quali a circuito chiuso rinviano istantanee di volti 
          dei ragazzi in primo piano. L'immagine di apertura è, naturalmente, 
          quella di Bruce Lee mentre, in un filmato d'epoca, descrive l'essenza 
          dell'arte marziale che dà il titolo allo spettacolo. A differenza 
          dei colpi devastanti del karate, il kung fu è fluido e inafferrabile 
          quanto un bicchiere d'acqua. I giovani belgi traducono quella fluidità 
          in fine polverizzazione acustica e visiva di immagini, suono e parola, 
          per un lavoro che conta molto sul coinvolgimento emotivo o ritmico della 
          platea. Non sono pochi i ragazzi che si impongono all'attenzione per 
          presenza, sfrontatezza o concentrazione. Bellissimi visi acqua e sapone, 
          sguardi intensi e languidi. Davvero abile il cinese mimetizzato fra 
          il pubblico che racconta la triste storia dell'amico diciannovenne paralizzato 
          a causa di un tuffo sbagliato in mare ed è assai brava la ragazza 
          che canta Witney Huston deridendo il film della cantante nera con Kevin 
          Kostner. C'è poi la rappresentante del passaverdure, la teen 
          ager che si innamora di tutti. Non è teatro comunemente inteso 
          questo "Kung fu" e, d'altro canto, la vita non è un 
          palcoscenico su cui può calare il sipario come avrebbe voluto 
          far credere il mitico Elvis con una frase "completamente stupida". 
          C'è autenticità e finzione in uguali proporzioni (la siringa 
          dell'eroinomane è palesemente finta) in uno spettacolo che non 
          sappiamo quanto sia stato sbilanciato dalla presenza dei dieci giovani 
          marchigiani reclutati nei giorni scorsi nelle discoteche della zona. 
          Non sono risolti i tempi del finale che agonizza quanto quello dei telefilm 
          statunitensi. Sarebbe stato più efficace chiudere con l'immagine 
          della nonna in poltrona sul grande schermo che dal fondo della scena 
          risponde agli sguardi di sfida di tutti i ragazzi al pubblico dicendo 
          "Non pensiate che sia io a sentirmi a disagio" e ride sardonica, 
          lei che ha fottuto la morte. Certo, come alcuni degli habitué 
          più "anziani" sottolineavano alla fine dello spettacolo, 
          ci si aspettava di più da questo lavoro presentato come evento 
          del festival ma di sicuro "Kung fu" ha una carica di freschezza 
          e di energia che manca alla danza elvetico-brasialiana degli Alias. 
          Al teatro della Luna, "On ne peut pas etre toujours en apnée" 
          del coreografo Guilhermo Botelho realizza un bizzarro connubio geografico-culturale 
          che associa la maniacalità svizzera della perfezione alla coscienza 
          del corpo tutta brasiliana. Lo spettacolo è interpretato da quattro 
          danzatori di esperienza e preparazione tecnica indubbie (Caroline de 
          Cornièere, Joseph trefeli, Kylie Walters, Mike Winter) ma più 
          che affondare nella comicità delle diverse situazioni proposte, 
          l'allestimento molto curato si attarda su spunti già sviluppati 
          da Fred Astaire. L'ironia dell'incantevole sirena ironica, perfettamente 
          a suo agio nei movimenti della lunga coda di plastica trasparente, perde 
          originalità con lo svolgimento del lavoro giocato davanti, dietro 
          e sopra una parete scorrevole dal fondo al proscenio. A conclusione 
          della prima giornata tutti sul palcoscenico trasformato in una vera 
          pista di discoteca con luci stroboscopiche e dj, fino a tarda notte. 
          Maria Manganaro da il Corriere Adriatico
 kung 
          fluidDal grande schermo digitale Bruce Lee spiega il primo requisito per 
          l'efficacia della pratica del kung fu: conoscere e immergersi nella 
          fuidità dell'acqua - per difendersi e aggredire nel momento giusto. 
          Corpo ed emozioni d'acqua dei giovani e delle giovani protagoniste incominciano 
          a scorrere sulla passerella Il gruppo italofimmingo ci introduce infatti 
          in un ambiente virtuale, a metà strada fra un defilé e 
          un set da T.V. verità- esplorando le proprie passioni attraverso 
          un fluido sonoro potente e ben microfonato. Il tutto genera un effetto 
          "simil-liquid" , dove lacrimine, perline di sudore e altro 
          , sanno impregnare di sé tracce di scrittura apparentemente statiche- 
          confermandone la misura poetico-ironica. Il loro segno risulta particolarmente 
          riuscito quando non si inaridisce negli stereotipi già conosciuti 
          sull'adolescenza- ma quando entra nella freschezza obliqua di certi 
          loro sguardi "in progress"- come quello della ragazzina italiana 
          che con poche frasi spiega il proprio cambiare costituzione di fronte 
          a interlocutori diversi- se stessa o il preside per esempio. Il ritmo 
          del video sullo schermo in questo caso conferma la trasformazione con 
          le proprie belle elaborazioni dal vivo e, più in generale, interagisce 
          con i corpi umidi e le parole acerbe , creando una efficace punteggiatura. 
          L'entusiasmo dei tecnici audio che da sotto la passerella seguono il 
          costruirsi della musica come Dj dilaga oltre i confini assegnati. L'ultima 
          immagine video, di una nonna che chiarisce di non essere stata assolutamente 
          a disagio, che anzi ride di gusto (il video ne moltiplica i puntini 
          di sospensione) conferma che essere liquidi, nuotare dentro pozze di 
          identità anche se si tratta di droghe o altro, per poi procedere 
          oltre, non crea ghetti, ma arricchisce crescita e comunicazione. complimenti 
          quindi, ma anche un encomio per le ragazze rotondette, di cui una dalla 
          voce intonata, sono loro la rivincita del teatro sull'imperialismo del 
          corpo sottile. Stefania Zampiga e Davide Venturini
 Kung 
          fluid (english version)
 From the digital backcloth Bruce Lee explains the first feature of an 
          effective practice of Kung Fu: getting to know and dipping into the 
          fluidity of water- to defend oneself and to attack at the right time. 
          The watery body and emotions of the young female and male protagonists 
          start flowing onstage. The Flemish- Italian group leads us to a virtual 
          zone, midway between a fashion parade and a set of "truth"TV- 
          exploring its own passions through a powerful acoustic fluid, well provided 
          with microphones. The whole work generates a "simil-liquid" 
          effect, where little tear-, sweat- et al.- drops merge and smear traces 
          of apparently static forms of writing- confirming their poetic-ironic 
          mark. Their most successful feature is when it doesn't dry up in already 
          known stereotypes about adolescence but when it enters in the slant 
          freshness of their looks "in progress": like when an Italian 
          girl admits that her demenour alters with different interlocutors, herself 
          or the headmaster, for example. In this case the rhythm of the video 
          in the background confirms the transformation with its beautiful live 
          elaboration and, more generally, intereacts with the humid bodies and 
          "un"ripe words and creates an effective punctuation. The enthusiasm 
          of the audio technicians below the stage following the building up of 
          music like d.j.s floods past assigned borders. One of the last video 
          images, of the traditional grandmother who admits she didn't feel uneasy 
          during the "show" but, on the contrary, keeps heartedly laughing 
          (also with the ironic repetition of the video effect), confirms that 
          being liquid, swimming inside pools of identity-even if dealing with 
          drugs or others- in order to go on, doesn't create ghettos, but enriches 
          growing and communication. Congratulations, then, to everybody; special 
          congratulations to the plump girls, one of which with an outstanding 
          voice; it is them who especially embody the overtaking of the theatre 
          over the imperialism of thin bodies. Stefania 
          Zampiga Davide Venturini s.zampiga@comune.prato.it
 Giovani 
          ritratti in video 
          Al di fuori dell'asfittico mondo del teatro e dell'arte italiana è 
          evidente che in paesi più culturalmente aggiornati del nostro 
          si stia sviluppando una riflessione più profonda sul linguaggio 
          visivo sulle formalità espressive, soprattutto superando le differenze 
          fra i generi della creatività e le forme più attuali della 
          comunicazione. Uno dei pochi luoghi in Italia dov'è possibile 
          incontrare i segni più nuovi di questa riflessione internazionale 
          è il festival in teatro di Polverigi, e non va dimenticato che 
          negli anni passati qui si sono visti per la prima volta personaggi come 
          Ian Fabre, il sudafricano William Kentridge (ora alla Biennale di Venezia 
          con un videocartone animato) o Alain Platel. Proprio dallo stesso ambito 
          creativo di Platel esce quel terzetto di giovanissimi che ha aperto 
          ieri sera l'ultima edizione della rassegna nel paesino anconetano. Il 
          regista Pol Heyvaert a poco più di trent'anni, mentre l'elaboratore 
          dei suoni Jonas Boel e il videomaker Felix van Groeningen sono under 
          25. Arrivano dalla città fiamminga di Gent, con l'etichetta "Victoria", 
          il centro di produzione che ha dato vita a diversi fenomeni nuovi dello 
          spettacolo e dell'arte, puntando sempre sui nomi sconosciuti, se si 
          pensa appunto che lo stesso Platel aveva creato in questa struttura 
          il suo Bernadetije con dei ragazzi del luogo, poi portato appunto qui 
          a Polvergi e in altre piazze italiane. Il terzetto di giovani belgi 
          lavora con quaranta adolescenti costruendo un happening intitolato "Best 
          of " Kung Fu. Ma qui si è chiesto loro di lavorare con una 
          parte del gruppo originario e una parte di giovani del luogo, tutti 
          senza alcuna esperienza né velleità teatrale. In scena 
          sono loro, semplicemente, a rappresentare, o meglio a esporre se stessi, 
          lasciando a noi il compito di cogliere, se vogliamo, i segni comuni 
          che possono fare da indicatori di una generazione. Ma il vero gioco 
          è un altro: inserire a pieno questi ragazzi in quell'universo 
          di cui sono quotidianamente partecipi, calarli completamente nella complessità 
          dei linguaggi che proprio di quella generazione sono tipici. Luci da 
          discoteca, passerelle da sfilata da moda, un grande schermo che fa da 
          sfondo sul quale passano le immagini più varie, dal kistch televisivo 
          a facce e luoghi della vita di quei giovani, spesso con gusto grafico 
          da pubblicità per teen-ager, e ancor più spesso rimandano 
          le stesse azioni che accadono in palcoscenico riprese nel dettaglio 
          di un primo piano. Cantano canzoni di Eros Ramazzotti o ballano su un 
          brano di George Michael. Ma tutto questo miscuglio di comportamenti, 
          di atteggiamenti, di frammenti visivi e sonori, viene riproposto senza 
          esibizione, senza caricatura, senza neppure ironia. E' un vero e proprio 
          sistema di comunicazione e di senso, è il linguaggio di questi 
          giovani, qui presentato così, in maniera acritica, senza sovrapporvi 
          un giudizio di alcun tipo, né chiedendone uno a noi. Lo spettacolo 
          scorre piacevolmente in questo modo, con i giovani che che si fanno 
          inglobare da suoni , luci e visioni. A tutto questo aggiungono loro 
          brevi riflessioni, racconti, aneddoti, pensieri, anche qui senza la 
          preoccupazione di dover dire qualcosa di importante, ma riportando soprattutto 
          quello che sembra essere il problema di fondo di tutti loro: il rapporto 
          con la propria identità, la difficoltà nell'osservare 
          gli aspetti contraddittori della propria interiorità, riflettendo 
          così in maniera ancor più efficace la complessità 
          del mondo che gira loro intorno e che non da risposte ma soltanto segni 
          confusi. Riportiamo frammenti di sentimento, parlando di amore, di morte, 
          di sesso, di violenza. Un solo esempio: una ragazza esegue una canzone 
          di Amy Stewart con grande impegno, e poi si ferma per dirci che è 
          una canzone stupida tratta da un film ancor più banale, ma che 
          lei la canta perché tutti le dicono che lo fa molto bene. E, 
          in fondo, per capire il rapporto di questi ragazzi con la stessa rappresentazione 
          del loro universo e la loro capacità di viver riproducendulo, 
          con semplicità, basta vederli dopo lo spettacolo, continuare 
          a ballare e a giocare a ritmo di dance fino a notte alta. Antonio 
          Audino da "Il sole 24 ORE" del 4 Luglio '99
 A 
          colpi di "Kung Fu" - I segreti di una generazioneDopo ventidue anni il festival di Polverigi, Inteatro, conserva un inconsueta 
          freschezza, a differenza di altre manifestazioni, anche di origine più 
          recente. Sul colle retrostante il promontorio del Conero, il festival 
          è negli anni cresciuto e consolidato, da una parte tenendo stetti 
          i sui vincoli con le istituzioni straniere (che significa consigli e 
          indicazioni preziose, con la sicurezza che ogni anno a Polverigi ci 
          sia "almeno" una cosa imperdibile) sia trovando un proprio 
          status privilegiato nella promozione della danza, così come è 
          sancito ora anche dai contributi ministeriali.
 Velia Papa indomita direttrice di inteatro, ha puntato così su 
          una vetrina eterogenea, dove non mancano gli spettacoli propriamente 
          teatrali (dalla Tempesta napoletana di iodice ai polacchi ubueschi di 
          Martinelli), ma in cui la danza propriamente detta si mescola a quelle 
          forme contaminate che sembrano oggi esprimere la più avanzata 
          spettacolarità europea. C'è quindi Adriana Borriello, 
          che mentre prepara con Polverigi una produzione per ottobre a Jesi, 
          mostra la Tammorra costruita sugli scavi e le reinvenzioni etnomusicologiche 
          di Francesco De Melis; ma Antonella Bertoni e Michele Abbondanza mescolano 
          il proprio lavoro coreografico e quello drammaturgico di Bruno Stori 
          e Letizia Quinta Valla. E Francesca Lattuada, dal suo "esilio" 
          parigino, torna per "danzare", immobile per quarantacinque 
          minuti, al suono del proprio canto in cerca delle proprie radici. Di 
          quanto i diversi linguaggi possano risultare intrecciati, testimoniano 
          i due spettacoli che nello scorso week end hanno aperto la manifestazione. 
          La compagnia svizzera Alias, che ha come mente il brasiliano Guilherme 
          Botelho, fedele al proprio nome conduce un singolare percorso sull'identità 
          dell'io, i suoi stati le sue illusioni, ottiche e di giudizio. A partire 
          da una bellissima sirena dalla trasparente e plastica coda d'ordinanza, 
          i quattro danzatori si passano gli interrogativi e i pezzi di virtuosismo 
          come in un girotondo schnitzleriano. Qualche rischio di ripetitività 
          a spirale, ma una coreografia di tutto rispetto.
 Di ben altro impatto Kung Fu. Best of che per la compagnia fiamminga 
          belga Victoria (la stessa di cui abbiamo visto meraviglie realizzate 
          da Alain Platel) ha messo in scena Pol Heyvaert. Quaranta ragazze e 
          ragazzi scatenati ci srolotano davanti un defilè tanto formale 
          quanto aggressivo con la benedizione iniziale di Bruce Lee, questo Kung 
          Fu e un cazzotto che sa anche di moda, di fotografia, di danza sulle 
          punte e di videoclip visto che le immagini riprese dalle tre telecamere 
          vengono a loro modo restituite dal fondale, dove pure appaiono altre 
          icone pop e scritte tanto eloquenti quanto spezzate e apodittiche.
 "Le ragazze sono complicate" recita una, e una fanciullona 
          paciosa spiega come lei preferisca succhiarne due per volta. Non tutti 
          sono così sfacciati, perché l'altra che canta il tema 
          potente di Whitney Houston da Body guard, quando si interrompe confessa 
          quasi piangendo di odiare in realtà quel film, che chissà 
          a quale fraintendimento traditore la riporta.
 A tempo di defilè insomma si susseguono confessioni incoscienti 
          e autocoscienze plurilingui. Il sound è nel corpo quello stesso 
          che porta il segno della periferia e della commistione. E' una radiografia 
          generazionale, irresistibile e sincera, quella ci sfila davanti, e le 
          sue verità, sgradevoli o originali, sa davvero mollarle con l'agilità 
          e la precisione del Kung Fu più intimo. Gianfranco 
          Capitta da Il Manifesto del 7 luglio 99
 Il 
          Dentro del mal di vivere eil Fuori del glamour Una volta, mi ricordo, i giovani volevano essere rock-star. I Magazzini, 
          allora ancora Criminali, intessero una loro performance su questo desiderio. 
          Mi ricordo Pierluigi Tazzi, alla consolle, urlare dalla barba rossiccia 
          ai mille microfoni quella comune aspirazione. Oggi l'oggetto di brame 
          è il dee-jay. L'uomo che conduce la dance. Il tribale sciamano 
          tutto decibel di suono e voce. I progettisti dello spettacolo "Kung-fu. 
          Best off" - agli altri miti dell'oggi: top-model, fulgore fisico, 
          sesso facile - hanno voluto dare spazio ad un minimalismo narrativo, 
          decisamente in contrasto con la ritualità mega di rave, sfilate, 
          films giallo-spy. Ne nasce uno spettacolo che, sulle voci dei protagonisti 
          (tutti allo stesso stato di comprimarietà), pone l'accento sul 
          dentro e l'esterno. Ove il Dentro è i piccoli-grandi problemi 
          del crescere, del vivere, che permangono onnivori sullo smart: sul glamour 
          del Fuori. "Best of", nella confezione giocata sugli opposti 
          , ci segnala una nuova "maniera" per una narrativa teatrale. 
          GSB
 Aspettando 
          le sorprese 
          Inteatro terza giornata proponeva, lunedì scorso, due gruppi, 
          uno di danza e l'altro di teatro, segnalati entrambi nel programma per 
          una carriera punteggiata di premi e riconoscimenti: gli Arbalete di 
          Genova e i Rosso Tiziano di Napoli. I primi, al Parco, presentano in 
          prima assoluta un lavoro scenografico , "L'aperto", che ha 
          per tema lo spazio interiore e l'ignoto, sviluppato per spunti disparati 
          che portano il segno della guerra, della morte, dell'amore. La resa 
          scenica dei diversi movimenti è frammentaria e irrisolta in ogni 
          sua parte (anche quando l'ispirazione è data dai versi di scuola 
          siciliana sulla battaglia tra cristiani e saraceni) a cominciare dall'uso 
          povero dell'apparato tecnico (e dire che hanno vinto il premio Giovani 
          Autori al concorso di video danza Stabat). Un'illuminazione dispersa, 
          un ridotto fondale celeste, un'acustica insufficiente. Costumi, maschere 
          e oggetti di scena poco significativi se non addirittura riduttivi quando 
          sul mitico brano di Domenico Modugno "U piscispada" la fiocina 
          e il pesce simbolicamente rappresentati non rendono alcuna giustizia 
          drammatica della struggente vicenda di amore e morte. Coreograficamente, 
          infine, non c'è affondo né grottesco, né fantastico, 
          né passiononale.
 Dai liguri ai partenopei di Rosso Tiziano non si registrano salti di 
          qualità. Se al Parco una piacevole brezza compensava l'andamento 
          dello spettacolo, al chiuso del cinema Italia la prova si faceva davvero 
          dura. L'aria all'interno era completamente consumata, il senso di soffocamento 
          minava la concentrazione dei trenta spettatori ammessi alla festa di 
          matrimonio di Otello. Tarallucci, 
          agrumi e vino per il pubblico davanti ai cui occhi calava materialmente 
          la rete delle pericolose allusioni creata da Jago per suscitare la cieca 
          gelosia del generale Otello. La tragedia scespiriana, scelta dalla giovane 
          compagnia campana come primo testo classico di teatro, non trova altra 
          necessità di essere rappresentata se non la buona interpretazione 
          di Jago e lo lo sguardo limpido e innocente della rossa Desdemona. Un 
          burattino ( o guattarella), il pubblico limitato, gli oggetti di scena 
          (un tavolo, delle panche, le reti calate dall'alto e una finestra con 
          ingiustificate ombre cinesi), la musica dal vivo, la diversità 
          di un Otello dal viso vistosamente colorato di scuro sono elementi che 
          la regia collettiva dello spettacolo (Fabio Cocifoglia, Alessia Innocenti, 
          Antonio Marfella, Alfonso Postiglione) non riveste di senso aggiuntivo 
          a una lettura centrata sulla figura di Jago. Forse a questo storico 
          festival internazionale cominciano a mancare le basi su cui continuare 
          a lavorare. Forse gli appelli di Velia Papa per la salvaguardia di un 
          patrimonio sovraregionale che rischia l'estinzione andrebbero ascoltati 
          o almeno valutati seriamente, adesso. Con questo non si vuol certo dire 
          che l'attuale edizione non ha motivo di esistere. Inteatro per sua natura 
          riserva sempre inaspettate sorprese e ci sono ancora cinque giorni perché 
          accada anche quest'anno.
 Stasera, "I polacchi" di Marco Martinelli alle 20,30, "Valzer" 
          dei parigini Quat'Zarts alle 22,00 e "The gas heart" del newyorkese 
          Big Dance Theater alle 23,00. Maria Manganaro 
          da il Corriere Adriatico del 
          7 luglio 99
 Tornano 
          le gradite sorpreseI conti tornano a Polverigi con la buona danza di Francesco Scavetta 
          e il curioso omaggio al dadaismo del Big Dance Theatre di New York.
 Arioso, elegante e complesso, lo studio per "A Tiny grin - Progetto 
          per una grande serra", del coreografo italiano che da qualche anno 
          ha fondato a Oslo una nuova compagnia con danzatori norvegesi, è 
          la visione fantastica di un giardino inteso come labirinto. Senza alcuna 
          ovvietà e con apparente semplicità, la scena rivestita 
          di moquette verde comprende due alte siepi sul fondo, un colorato fiore 
          elettrico sotto vetro e una bizzarra figura umana con tuta di plastica 
          e bicchiere in proscenio. Una giovane donna con abito a fiori entra 
          passando tra le siepi, ha negli occhi e nei gesti la meraviglia di Alice 
          e l'allusione al personaggio di Lewis Carroll prosegue con un divertente 
          gioco sugli oggetti del cricket. Finalmente non c'è filo narrativo 
          nello spettacolo, né pantomimiche azioni ma immagini belle, del 
          tutto funzionali alla danza dei sei bravi danzatori (Heine Avdal, Mette 
          Edvarsen, Gry kippenberg, Francesco Scavetta, Yukiko Shinozaki, Kristina 
          Oren). Spiritoso in molti momenti (dei quali mi piace ricordare il giochetto 
          delle mani e dei numeri della danzatrice giapponese che saluta con un 
          doveroso e comico saionara) questo studio (magari tutti i lavori finiti 
          raggiungessero la sua stessa qualità) si basa sulle ottime musiche 
          originali di Nils PetterMolvaer. Lo spazio è disegnato da un'illuminazione 
          che efficacemente sottolinea il gioco tra il naturale e l'artificio 
          Un piacere per l'occhio e per l'orecchio, insomma. Aderenza coerente 
          al tema anche nei complicati cambi scenografici resi essenziali sia 
          alla danza che all'immagine di un giardino delle meraviglie dove tutto 
          si trasforma creando inusuali prospettive. Vivo e inanimato si confondono 
          nel gioco di illusionismo che, oltre ai danzatori, comprende un fantoccio 
          a cui è dedicata la canzone finale dal vivo. Uno lavoro raffinato 
          che ricorda Carolyne Carlson ma ha una sua propria originale tenuta.
 Dal Parco al Teatro della Luna senza rimpianti per assistere a "The 
          gas Heart", tratto dalla commedia surrealista di Tristan Tzara 
          e messo in scena da Paul Lazar e Annie-b Parson per il Big Dance Theatre. 
          Lo spazio scenico è delimitato da un quadrangolo regolare evidenziato 
          da segni bianchi sul pavimento. Per isotropia, la forma della scena 
          si estende alla platea creando un corpo unico all'azione teatrale. Un 
          tavolo rotondo e sedie con rotelle stile anni Venti per i sei attori-danzatori 
          che, con la millimetrica precisione tipicamente statunitense, orientano 
          persino lo sguardo. Dal testo di uno dei padri del movimento dada scaturiscono 
          le relazioni fantastiche tra i personaggi che programmaticamente perdono 
          la loro stessa definizione di occhio, bocca, parola o sopracciglio. 
          Ruoli sregolati, privi di fissità, secondo i canoni del dadaismo 
          in dialettica opposizione al rigore formale di uno spettacolo confezionato 
          ad arte. Di aristocratica eleganza, in bianco e nero, donne puledro 
          o megafono e autori alle macchine da scrivere producono poltiglia di 
          senso con humour e disinvoltura di passi (talvolta molto complicati) 
          su dialoghi improbabili e incomprensibili detti tra l'inglese e il francese. 
          In programma di sala consiglia di affidarsi al ritmo senza sforzarsi 
          di comprendere le parole. Il risultato è notevole ma soffriamo 
          un po' l'incapacità di ascoltare il non sense di una commedia 
          che si apre con "Clitennestra moglie di un ministro, guardava alla 
          finestra" per chiudersi con l'invito al pubblico di andare a dormire.
 Stasera, alle 21,30 Libera mente da Napoli in "La tempesta - Dormiti 
          gallina dormiti"; alle 21,30 con replica alle 22,30 Beat 72 da 
          Roma in "Il linguaggio della montagna" con Rocco Papaleo e 
          Antonio Catania; alle 23,00 El Knap di Ljubljana in "Gina and Miovanni" 
          (Per informazioni e prenotazioni , tel. 071.909.00.07) Maria 
          Manganaro da il Corriere Adriatico del 
          8 luglio 99
 Un 
          coinvolgente Valzer 
           
          back 
          A Polverigi, per il terzo anno consecutivo, una scatola nera telematica 
          registra pulsazioni e aritmie del Festival .Tutti gli spettatori entrando 
          nel sito www.teatron.org ( oppure www.fastnet.it/associazioni/inteatro) 
          possono tradurre l'esercizio dello sguardo in notazioni emotive o critiche, 
          contribuendo a creare una memoria che va al di là dell'informazione 
          giornalistica. Ogni anno di più, l'esperienza va delineandosi 
          come diario rivelatore dell'andamento della manifestazione , utile agli 
          organizzatori ma dotato anche di valore autonomo.
 Oltre che il ricordo di coloro che vi hanno fisicamente preso parte, 
          l'eroica esperienza degli spettatori del soffocante cinema Italia, per 
          esempio produrrà ulteriori sensazioni agli occasionali visitatori 
          del sito a carattere permanente. Mercoledì scorso, nella sala 
          del cinema che , secondo le promesse del sindaco balducci, diverrà 
          preso un accogliente spazio teatrale, le Albe afro-romagnole di Ravenna 
          inscenavano " I polacchi". Lo spettacolo che da qualche anno 
          gira con grande successo in Italia, è tratto da l'Ubu Roy di 
          Alfred Jarry, riprendendo il primo titolo del capolavoro concepito ed 
          elaborato un secolo fa sui banchi del liceo. La scenografia delle Albe 
          si sviluppa come un lungo tridente ligneo, le cui punte affondano lungo 
          tutta la platea, fra gli spettatori assimilati a turisti giapponesi 
          cui è consentito di fotografare senza compromettersi. Naturalmente 
          non è così facile uscire indenni dai corto circuiti innescati 
          dal regista- drammaturgo Marco Martinelli che contamina i classici con 
          la mostruosità del quotidiano. Medar e Pedar Ubu sono interpretati 
          dalla straordinaria ermanna Montanari e dall'attore senegalese Mand 
          Jay. I dodici palotini sono ragazzi-personaggio allevati nella non scuola, 
          dove Marco Martinelli insegna non tecniche teatrali. Prodotti dall'energia 
          debordante dei palotini, i due avventizi tiranni sono due marionette 
          di insaziabile ferocia. Lei bianchissima dai capelli al viso, alla tunica, 
          si muove a scatti e parla un rigido dialetto romagnolo. Lui col ventre 
          pieno , è l' arroganza della stupidità fatta potere. L'atmosfera 
          è plumbea e nebbiosa, è quella del Museo Ubuniversale 
          da cui emergono molti dei nostri molti dei nostri inguaribili mostri. 
          La via del tradimento porta all'autenticità anche la compagnia 
          parigina Quat'Zarts che affronta il tango come metafora dell'incessante 
          giro della vita , circolare come un "Valzer" secondo il titolo 
          che che la coreografa Catherine Barbessou ha dato al coinvolgente lavoro. 
          Nel palcoscenico , coperto di terra, è lo spazio tra le baracche 
          di legno degli immigrati in Argentina, dove la passionale danza è 
          nata più di un secolo fa. Violenza sottomissione ed esposizione 
          del corpo ai danni della donna segnano l'inizio dello spettacolo, interpretato 
          da otto bravissimi danzatori. Da Gadel alla rumoristica industriale, 
          il tappeto sonoro e ambientale concentra i diversi momenti ( e sviluppi) 
          storico culturali del tango. Desiderio seduzione, solitudine, complicità 
          ( compresa quella fra uomini), rapporti di coppia agiti con " voluttà 
          dolce", fino ad un fermo immagine che sembrava chiudere uno spettacolo 
          senza fine e, naturalmente, suggellato da un tango classicamente ballato. 
          Oggi nella Villa Nappi si svolgerà il terzo incontro internazionale 
          intitolato " Il Mediterraneo dei teatri". Maria 
          Manganaro da il Corriere Adriatico del 
          10 luglio 99
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