La cifra teatrale dei MARCIDO
Conosco i Marcido da circa quindici anni, sono stato (credo) uno dei primi critici teatrali (con Bartolucci) ad essere investito dai loro materiali audio: spedivano cassette con le registrazioni delle loro oratorie genettiane, radicali e dissonanti. Emulazioni della vocalità post-aulica di Marion D'Amburgo dei Magazzini ( allora ancora "Criminali"). Davano all'impostazione fonetica un'importanza esagerata ma proprio per questo affascinante, andavano oltre l'affermazione lapidaria della "phoné" come teatro affermata dallo stesso Carmelo Bene.
Erano esagerati, esasperati e di conseguenza esasperanti.
Era, ed è tutt'oggi, questa la cifra del loro lavoro teatrale. Inesorabile, come una macchina da guerra.
Devo dire che solo lo scorso anno ho ritrovato, proprio con questo spettacolo,"Canzone d'amore", una chiave per aprire la mia disponibilità nei loro confronti: è antropologica, tesa a cioè a entrare in relazione con l'"altro" da me. Sarà perché ho stabilito una misura più equilibrata con i mondi teatrali, dopo esserne stato "fuori" per un po'.
L'aspetto che, antropologicamente, rilevo con più pregnanza è questo: rappresentano una delle forme più acute di genialità tratta da alterità.-
Isidori in particolare sa tradurre la sua "furia" in valore teatrale. In quegli occhi socchiusi, perennemente aggrottati anche nel sorriso, c'è una furia paragonabile a quella che vidi esprimere a Kantor nei mesi della sua "residenza teatrale" fiorentina tanti anni fa. Nello sguardo risiede visione.
Teatro dopotutto è misurarsi anche con le visioni, i sogni o gli incubi, degli altri.
Visioni che ci invadono e ci inquietano anche.
Le straordinarie macchinerie di Daniela Dal Cin corrispondono in modo straordinario a questa visionarietà.
Così grandi e paradossali da lasciarci sempre un po' interdetti, sono mostruose e bellissime.
Sono "macchine celibi", come quelle di Duchamp, senza senso, senza funzione, se non quella di liberare il desiderio di alterità che pulsa dentro i Marcido. Pulsa come un'energia possessiva, travalica coscienza e buon senso. Sembrano posseduti, infatti, i ;Marcido. Gli attori vanno avanti come soldatini o meglio: come le "oche di Lorenz". Imitano i gesti e i vocalismi di mamma oca, Maria Luisa Abate, eccellente nel suo registro interpretativo, tutto suo, un canone tutto proprio, ben oltre i modelli attoriali di riferimento iniziale.
Il mio sguardo, dicevo, è quindi antropologico per cogliere questa qualità aliena, estranea e distante.
Ma è in questa distanza che rilevo una forte contraddizione teatrale: non riesco a condividere, non entro in relazione empatica, non scambio nulla, non trovo luogo nei pressi della loro visione.
La contraddizione non è nel fatto che i Marcido mi appaiano alieni, anche la Fura dels Baus, tanto per citare un esempio, amano esprimere alterità ma creano contesti ludici, aperti (anche in spettacoli da palcoscenico come il "Faust 3.0"), mi fanno entrare in gioco.
I Marcido no. Mi lasciano fuori, attonito, di fronte alla loro inesorabile macchina da guerra teatrale.
M'inquietano anche.Ma questa inquietudine mi piace, so che grazie alle crisi si cresce. (Carlo)