| di Roberto Benigni con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Sergio Bustric, Giustino Durano e Giorgio Cantarini. ITA, 1997. Distr.: Cecchi Gori  
         Un uomo rinchiuso in un campo di sterminio con la 
        famiglia salva il figlio dall'orrore facendogli credere che è tutto 
        un gioco.  
         Nel 1938 Guido Orefici (Roberto Benigni) arriva in 
        una città della Toscana dove vuole aprire una libreria. Intanto 
        lavora come cameriere presso il Grand Hotel dove conosce Dora (Nicoletta 
        Braschi), una ragazza di buona famiglia promessa sposa di un ottuso funzionario 
        comunale, esponente del partito fascista. Innamorato perso, Guido gioca 
        ogni carta per conquistarla, arrivando a "rapirla" durante la sua festa 
        di fidanzamento. A guerra iniziata, Guido e Dora si ritrovano felicemente 
        sposati e genitori di Giosuè (Giorgio Cantarini), un bimbo di cinque 
        anni. Quando vengono promulgate dal governo fascista le leggi razziali, 
        Guido e il bambino, a causa delle loro origini ebraiche, vengono deportati 
        in un campo di sterminio. Comincia così il travaglio di Guido per 
        preservare il proprio figliolo dalle violenze fisiche e psicologiche dei 
        nazisti: la soluzione è di fargli credere che si tratta di un gioco 
        a premi organizzato cui partecipano tutti i prigionieri e che contempla, 
        quale ambito primo premio, un carro armato vero. torna in alto 
           
          Non c'è paragone tra le farse con le quali Benigni 
        aveva sbancato il botteghino nelle scorse stagioni cinematografiche e 
        questo autentico gioiello, col quale è riuscito a sorprendere quanti 
        in passato avevano storto la bocca di fronte alla sproporzione fra il 
        suo genio di clown e la sua mediocrità di autore. Non che Benigni 
        sia diventato improvvisamente un grande regista o che il film sia un capolavoro 
        perfetto; tutt'altro. Ma poco importa, tanta è la straordinaria 
        forza poetica dell'idea sulla quale lui e Vincenzo Cerami hanno costruito 
        questo indimenticabile apologo: usare il sorriso per preservare un bambino 
        dall'orrore, affinché in futuro possa continuare a pensare che 
        la vita è bella. E' un'idea degna di Chaplin per il perfetto dosaggio 
        di comicità e sentimento, di drammaticità e leggerezza, 
        di amarezza e di ottimismo, di irriverenza e di rigore morale. Un'idea 
        che celebra l'eroismo della fantasia, che fulmina in una luce assoluta 
        l'assurdità del razzismo della sopraffazione, che appaia l'intollerabilità 
        della violenza sui corpi a quella della mortificazione dell'anima. Sarebbe 
        stato facile per Benigni, forte dell'amore di un pubblico che sembra entusiasmarsi 
        per qualsiasi cosa faccia o dica, adagiarsi come un Pieraccioni sulla 
        facile replica di formule già collaudate. E invece, con questo 
        bellissimo film, colma in maniera definitiva l'abisso che separa il talento 
        dalla poesia. Ciò gli è valso il premio speciale della giuria 
        al festival di Cannes; o, come preferisce chiamarlo Benigni, il Dattero 
        d'Oro. torna in alto "LA VITA È BELLA" IN TV, RECORD STORICO È il film più visto di tutti i tempi: 
        16 milioni di spettatori. Benigni: grazie Italia di Pasquale Elia Corriere della Sera 24/10/2001  
         Grazie a Roberto Benigni, Raiuno ha battuto tutti i record 
        d’ascolto relativi alla programmazione dei film in tv. Trasmesso lunedì 
        scorso, il premio Oscar "La vita è bella" è stato 
        visto da 16 milioni e 80mila spettatori (53.67 per cento di share), annullando 
        così il primato che "Il nome della rosa" deteneva da 
        ben 13 anni. Nell’88 la pellicola di Annaud aveva incollato davanti allo 
        schermo più di 14 milioni di spettatori e da allora nessun altro 
        lungometraggio era riuscito a fare di meglio. "Ci aspettavamo 13 
        milioni di persone: siamo andati oltre le migliori previsioni", dice 
        soddisfatto il direttore di Raiuno, Agostino Saccà. Che attribuisce 
        il merito della vittoria all’"amore della rete per questo film e 
        per il modo con cui è stato promosso e curato". Non dimentica 
        gli "avversari", Saccà, costretti a mangiare la polvere. 
        Ma ai quali comunque rende l’onore delle armi: "Non hanno sprecato 
        un film del magazzino e hanno puntato su un pubblico diverso". Ogni 
        riferimento a fatti e personaggi è decisamente voluto: Canale 5 
        e il "Grande Fratello". La puntata straordinaria di nomination 
        di lunedì ha fatto registrare un ascolto del 21.03 per cento di 
        share (6 milioni e 38mila spettatori). Rispetto all’appuntamento della 
        settimana scorsa, il reality-show ha perso un po’ di pubblico, ma non 
        è franato. Un risultato che fa mantenere ancora il buon umore a 
        Giovanni Modina, direttore di Canale 5, tanto da permettergli di ricambiare 
        la cordialità espressa da Saccà: "Come spettatore sono 
        contento che quel film abbia fatto un gran risultato". E come dirigente 
        di rete? "Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, mantenendo il pubblico 
        femminile e giovane". Lascia che siano gli altri a scambiarsi affettuosità, 
        Vincenzo Cerami, co-sceneggiatore di "La vita è bella": 
        "La sfida con il "Grande Fratello" mi aveva un po’ seccato. Potevano 
        scegliere un "testo" competitivo in termini di qualità, piuttosto 
        che puntare su una delle cose più volgari che la tv abbia mai inventato". 
        Intanto in viale Mazzini si brinda per il trionfo della serata (con 8 
        milioni e 776mila persone, il "Fatto" di Enzo Biagi ha battuto 
        il concorrente diretto "Striscia la notizia", che invece ha 
        raccolto 8 milioni e 336mila spettatori): gioisce il presidente della 
        Rai, Roberto Zaccaria ("Il successo del film va al di là dei 
        numeri dell’Auditel"), ed esulta anche Benigni. Quando gli hanno 
        comunicato i risultati, si è messo a saltellare "felice come 
        un capretto in mezzo ai prati". Poi, come se davvero avesse davanti 
        quei 16 milioni di utenti, conclude: "Nicoletta Braschi e io vi ringraziamo 
        uno ad uno con tutto il cuore per l’amore che avete buttato addosso a 
        questo film". torna in alto  
         "LA VITA È BELLA ANCHE IN UN LAGER?" di Dario Venegoni L'attore toscano vince la scommessa: raccontare una favola intensa 
        e grottesca che parli dello sterminio degli ebrei nei campi nazisti. Un 
        film che fa ridere e piangere. E soprattutto discutere.
  
         "Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!" Il piccolo Giosuè 
        (impersonato da Giorgio Can tarini) alza le magre braccia al cielo nel 
        grido del trionfo, ri trovando la mamma alla libe razione del Lager. Nei cinema di tutta Italia cen tinaia di migliaia di 
        persone hanno riso e pianto vedendo l'ultimo film di Roberto Beni gni, 
        certamente il più difficile e rischioso. Vista l'accoglienza riservata 
        alla sua pellicola dal pubblico e dalla critica, anche Benigni può 
        ormai tirare un sospiro di sollievo e lanciare il grido del trionfo: "Abbiamo 
        vinto!". Non solo la pellicola ha stracciato ogni record di in cassi per 
        un'opera di questo genere, ma all'attore e regista toscano sono giunte 
        le felicita zioni anche dei critici più se veri, oltre che da molti 
        super stiti dello sterminio nazista. Perché, per chi non lo sapesse, tutto il secondo 
        tempo del film si svolge in un immaginario Lager, dove l'ebreo toscano 
        Guido Orefice (lo stesso Benigni) è deportato insieme al fi glioletto 
        Giosuè, che incredi bilmente rimane con lui. Nel tentativo di tenere 
        il figlio al riparo dall'orrore, il padre in venta un gioco pazzesco a 
        uso e consumo del bambino, "traducendo" la vita del Lager in altrettanti 
        improbabili pas saggi di un gioco a premi, di quelli "da schiantarsi dalle 
        ri sate". Il film corre lungo questo sot tilissimo crinale tra 
        il tragico e il burlesco, spingendosi fino a mostrare le selezioni per 
        le camere a gas, il lavoro forzato, il fumo nero del camino dei crematori. 
        Una favola amaris sima, che raggiunge l'obiettivo di raccontare con il 
        linguaggio della poesia l'orrore dei campi, e prima ancora delle leggi 
        razziali che anche nel nostro paese hanno discriminato, colpito, perseguitato 
        tanti ita liani sotto il fascismo, fino al giorno in cui a migliaia sono 
        stati strappati dalle loro case e deportati sui carri per i Lager. Figlio di un internato militare, Benigni voleva raccontare 
        da anni - lo ha ricordato lui stesso - l'orrore dei Lager. L'ha fatto 
        ora, con il linguaggio e la poe tica che gli sono propri, avva lendosi 
        della consulenza di al cuni esponenti del Centro di documentazione ebraica 
        con temporanea di Milano che hanno avuto l'intelligenza e la sensibilità 
        di collaborare con lui intervenendo sulle scene, sui costumi, sull'intera 
        vicen da.Qualcuno, anche tra di noi, ha per la verità storto il naso, ne 
        gando la liceità di un tentativo di questo genere: non è 
        corretto - ha detto - cercare di far ridere il pubblico mo strando i Lager; 
        non si può ir ridere il dramma di tanti mi lioni di caduti dei 
        campi. Altri hanno soprattutto apprezzatoto - e noi siamo tra questi - 
        l'intento del film di servire proprio alla causa della memoria dello sterminio 
        e dell'infamia delle leggi razziali fasciste.
 Certo, "La vita è bella" non è un documentario 
        costruito su rigorose basi scientifiche. È piuttosto una sorta 
        di favola moderna, che va presa per quella che è, senza fermarsi 
        a controllare la veri dicità storica di ogni foto gramma. Poteva 
        un padre na scondere nel suo "block", nel campo, un figlio di pochi anni? 
        Perché la moglie del protago nista (impersonata da Nicoletta Braschi), 
        che non è ebrea, ha nel campo la divisa a righe e il numero ma 
        non il triangolo colorato? Non sa Benigni che oltre agli ebrei c'erano 
        milioni di altri depor tati che portavano sul petto triangoli di altri 
        colori? La discussione continua. E questo giornale sarà 
        lieto di ospitare - oltre a quelli che pubblichiamo qui di seguito - i 
        commenti di chi i campi di Hitler li ha conosciuti dal vero, e non soltanto 
        al ci nema. torna in alto
 "HO VISTO IL FILM, NON MI HA CONVINTO"
 Si possono scrivere favole su Auschwitz? di Daniel Vogelmann Confesso che l'altra sera al "Politeama" di Arezzo ero molto emzionato, 
        come mi capita tutte le volte che sto per assistere a un film sull'Olocausto. 
        La domanda che viene sempre in mente in questi casi è se chi non 
        ha vissuto direttamente l'orrore dei campi di sterminio sia "autorizzato" 
        a parlarne, come se l'Olocausto fosse una sorta di "mistero sacro" che 
        soltanto chi lo ha vissuto in prima persona può tentare timidamente 
        di svelare. Sono note a tutti le polemiche nate dopo tentativi analoghi, 
        dalla Scelta di Sofia a Schindler's List: è sufficiente l'arte, 
        anche la più grande, per parlare dell'indicibile?
 E confesso inoltre il mio imbarazzo nello scrivere a 
        caldo queste note di carattere assolutamente personale: criticando, come 
        mi appresto a fare, il film di Benigni, mi sembra di paral male di Garibaldi... 
        E poi chi osa farlo è proprio un ebreo, che dovrebbe invece essere 
        grato al geniale comico toscano per aver affrontato con simpatia questo 
        tragico argomento (anche sulla "doverosa" gratitudine degli ebrei si potrebbe 
        parlare a lungo...). Comunque, prima del film non ero certo prevenuto, 
        sia per gli apprezzamenti positivi che avevo già letto sia perché 
        ho sempre stimato Benigni (e, intendiamoci, lo stimo ancora, se non altro 
        per la buona intenzione di fare questo film). Avendo avuto delle illustri e sbandierate collaborazioni, 
        mi immaginavo che dal punto di vista storico-documentario il film fosse 
        pressoché perfetto e soprattutto lo volesse essere. Mi sono invece 
        subito imbattuto in una strana superficialità appena si accenna 
        alle leggi razziali del 1938: dov'è quel terribile choc che tutti 
        gli ebrei italiani provarono del tutto inaspettatamente? Invece, Guido 
        ORefice, il protagonista del film, per niente toccato dalla tragedia (perché 
        fu una tragedia!), si sposa tranquillamente con una non ebrea e apre anche 
        la sua piccola cartolibreria. Ma il peggio, come sappiamo, doveva ancora venire con 
        l'8 settembre e l'arrivo dei tedeschi. Quando tutti gli ebrei italiani 
        cercarono disperatamente un rifugio, Guido Orefice non sembra preoccuparsi, 
        e quindi viene preso in casa insieme al figlio Giosuè. La moglie 
        sceglie per amore di seguirli e tutti i tre salgono sul maledetto treno 
        che li porta in un campo di concentramento, anzi in un campo di sterminio 
        vero e proprio con tanto di camera a gas e forno crematorio. Sul viaggio 
        infernale nessuno accenno. Orefice scende in buono stato e pronto a scherzare 
        per non rattristare il figlio (lodevolissima intenzione, ma vi prego di 
        credermi: dopo un viaggio del genere - lo so da mio padre Schulim che 
        quel viaggio lo fece con la moglie Anna e la figlioletta Sissel - neanche 
        Dio avrebbe potuto scherzare...). E poi come non ricordare che le donne 
        con i bambini venivano subito avviate alle camere a gas, mentre gli uomini 
        idonei diventavano schiavi. Dov'è nel film l'"ex uomo" di Primo 
        Levi, "che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo 
        pane, che muore per un sì o per un no"? Guido Orefice, invece è 
        sempre piuttosto lucido e allegro, regala perfino il suo pane al figlio: 
        Benigni e il suo sceneggiatore non hanno mai letto nelle numerose testimonianze 
        che anche i padri e i figli si rubavano il pane pur di sopravvivere, che 
        i tedeschi, oltre a uccidere il corpo dei prigionieri, avevano loro ucciso 
        anche l'anima? Certo, poi Guido Orefice si "riscatta" morendo per salvare 
        la moglie e il figlio, la guerra finisce con la vittoria (per chi ha potuto 
        vederla) e del dopo non si dice più nulla. Tranne che va bene così, 
        che la vita è bella, che in fondo viviamo nel migliore dei mondi 
        possibili, a parte qualche tragica parentesi, dove però con la 
        buona volontà, il senso dell'umorismo e una sana innocenza ce la 
        possiamo tutto sommato cavare...Anche mio padre, che da Auschwitz tornò solo (perché evidentemente 
        non fu così bravo da inventare un gioco per la sua Sissel), diceva 
        (per me misteriosamente) che la vita è bella. Ma che strazio nella 
        sua voce, quando lo diceva... Valenti critici cinematografici diranno 
        che il film è una favola a fin di bene e che quindi la verosimiglianza 
        non è importante... Ma allora io mi domando, parafrasando una famosa 
        frase: "Si possono scrivere favole su Auschwitz?".
 E infine un'ultima osservazione: migliaia di ragazzi, 
        che non sanno nulla dell'Olocausto, attratti dal Robertaccio nazionale, 
        andranno a vedere questo film. Quale sarà la loro impressione? torna in alto
 "NON SI PUÒ RICOSTRUIRE IL LAGER"
 Non andrò a vedere neppure questo film di Teo Ducci No, non andrò a vederlo il film "La vita è bella" del Roberto 
        Benigni nazionale. Non andrò a vederlo come mi sono rifiutato di 
        vedere tutti gli altri film nei quali registi di vario calibro hanno tentato 
        di far vedere che cosa era e come era un Konzentrations = Lager nazista. 
        Faccio già fatica a capire quello che mi è capitato, a ricordare 
        quello che il Lager era, come era, come l'ho vissuto. Mi vengono in mente 
        le parole di quel tenente inglese che, entrato per primo nel Kz Belsen 
        Berger, iniziò il suo rapporto ai superiori con queste parole "dovrei 
        descrivere l'indescrivibile". Figuriamoci, lui che aveva l'ecatombe lì 
        davanti ai suoi occhi, lui che aveva visto questo e altro, davanti a quello 
        spettacolo terrificante, non trovò le parole perché, quello 
        era veramente indescrivibile.
 Non si tratta solo delle immagini (forse si tratta proprio 
        di quelle) cioè dei finti, volti emaciati, dei mille particolari 
        che sfuggono al più attento osservatore, ma che ti colpiscono immediatamente, 
        si tratta di ben altro. Dell'atmosfera, del peso dei silenzi, del fetore, 
        delle urla, della tensione nervosa, della paura, senza della fame. Si 
        tratta di quella perversa distruzione della nostra personalità 
        che non si può in alcun modo visualizzare.E allora tutto è fasullo, tutto è artificiale. Il Lager 
        non è, non può essere, quello che veramente era come noi 
        superstiti l'abbiamo vissuto e che altri, con tutto il rispetto per la 
        loro buona volontà, cercano di ricostruire. Il Lager non può 
        essere ricostruito. Andrei più in là: non deve essere ricostruito. 
        Lasciatemi dire come i nostri vecchi: scherza con i fanti e lascia stare 
        i santi.
 Io apprezzo l'interesse di tanti per la nostra vicenda 
        e il tentativo di renderla comprensibile. Premesso che comprensibile non 
        è, non sarà mai, temo che rievocarla sul grande schermo 
        provochi ancora una volta traumi terribili. Penso non solo ai superstiti, 
        penso anzitutto ai familiari. Che poi migliaia di spettatori vadano ad 
        emozionarsi al cinema, questo è un altro discorso. E mi chiedo 
        se questa interpretazione cinematografica, a prescindere dagli svarioni 
        che ognuno di noi avverte, serve veramente a far capire la spaventosa 
        dimensione del crimine commesso. Si dirà: è gente che non 
        vedrebbe documentari, almeno così si fa un'idea di quello che è 
        stato. Può essere. Ma, per me, è sempre un'idea distorta 
        che apre inutilmente nuove piaghe nei nostri già abbastanza tormentati 
        ricordi. torna in alto  
         QUELLE CRITICHE SONO AUTIEDUCATIVE di Bruno Maida  
         E' difficile contare le prese di posizione, favorevoli 
        o contrarie, nei confronti del film "La vita è bella" 
        di Roberto Benigni. L'argomento, il modo in cui viene trattato, le caratteristiche 
        artistiche (ma anche le prese di posizione politiche) dell'autore, la 
        collaborazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, 
        sono tutti elementi che non potevano che determinare un dibattito a volte 
        utile, a volte in verità sconcertante. Laddove si critica il valore artistico dell'opera non 
        posso che fare un passo indietro, ascoltando chi se ne intende, e affermando 
        solo il diritto al mio gusto personale. Tuttavia non posso nascondere 
        di aver trovato estremamente convincente il film di Benigni sia nella 
        capacità di tratteggiare (magari con alcune cadute: il grottesco 
        eccessivo con cui disegna il re e la regina; il finale troppo consolatorio) 
        quella fase drammatica della storia italiana sia di coniugare felicemente 
        allegria e dramma, con tratti chapliniani a cui è difficile sfuggire, 
        valga per tutti la traduzione del discorso della SS. Ma il film mi sembra 
        convincente anche nel ritmo, nel plot narrativo, nei personaggi sufficientemente 
        approfonditi, nella recitazione sentita e attenta di Benigni che qui si 
        dimostra davvero un grande interprete. Si pensi alle sfumature che pian 
        piano nel film mutano il volto di Benigni, immagine di un animo sempre 
        più svuotato e alla fine puro involucro divertente ed allegro al 
        servizio delle possibilità di vita del figlio. Laddove, al contrario, interviene l'onda emotiva di chi 
        ha vissuto il Lager o di chi (come Daniel Vogelmann) ne ha conosciuto 
        le drammatiche prospettive di lungo periodo, non posso che condividere 
        e cercare di comprendere la difficoltà con la quale ci si approccia 
        ad ogni opera che tenti di raccontare una dimensione così complessa 
        e apparentemente indicibile. Rimangono tuttavia almeno due piani che necessitano di 
        una ulteriore riflessione e che soprattutto ritengo siano utili per affrontare 
        un dibattito pubblico - ma anche molto sotterraneo - in cui si scontrano 
        idee e sensibilità, troppo spesso quanto inevitabilmente dettate 
        dall'impatto emotivo. In primo luogo, credo che posizioni come quella di Orengo 
        su "La Stampa" o di Teo Ducci su questo giornale - diverse nell'argomentazione 
        ma unite nella sostanza: "il film di Benigni non lo vado a vedere" 
        - non siano condivisibili e si caratterizzino addirittura per un elemento 
        antieducativo. Non sono a mio avviso condivisibili perché - al 
        di là dell'inalienabile diritto a fare ciò che si vuole 
        - fondate sul pregiudizio di chi, come scrive Ducci, si è "rifiutato 
        di vedere tutti gli altri film nei quali registi di vario calibro hanno 
        tentato di far vedere che cosa era e come era un KZ nazista". Di 
        che cosa si discute allora? Del fatto che il Lager non può né 
        deve essere ricostruito perché un'immagine non è in grado 
        di restituire l'immensa complessità di parole come fame, freddo, 
        paura. E' vero ma non è in grado di farlo neanche una ricostruzione 
        storica e, dirò di più, neanche la più precisa, attenta 
        ed emozionante testimonianza. Ecco dunque che lentamente - e qui il discorso 
        diventa antieducativo - il Lager diventa indicibile, non raccontabile 
        così che lentamente esce dalla storia, proprio da quella storia 
        che uomini come Vogelmann o Ducci hanno fatto tanto per mantenere viva 
        e presente. In secondo luogo, mi sembra che le critiche "storiche" 
        al film siano davvero poco fondate. A partire dal fatto - che mi sembra 
        inequivocabile - che ad un'opera d'arte non si può chiedere una 
        semplice trasposizione della realtà (ma non era il tono eccessivamente 
        documentaristico una delle critiche a "Schindler's List?") e 
        che forse ad un'opera d'arte ognuno ha diritto di chiedere (e di leggervi) 
        ciò che vuole, appare secondo me discutibile sostenere - come ha 
        fatto su questo giornale Daniel Vogelmann - che nel film si sarebbe dovuto 
        vedere "quel terribile choc che tutti gli ebrei italiani provarono 
        del tutto inaspettatamente". Mi pare, al contrario, che uno dei meriti maggiori del 
        film - proprio nella sua prima parte - stia appunto nel cogliere con senso 
        storico le molte sfumature di consapevolezza e di atteggiamenti che vi 
        furono nel mondo ebraico (e in quello italiano nel complesso) di fronte 
        alle leggi razziali. Allo stesso modo ci mostra come per molte persone 
        la scoperta della propria identità ebraica nacque attraverso l'esperienza 
        di discriminazione e soprattutto di persecuzione. E ancora: ci aiuta a 
        capire come di fronte alle leggi razziali uno degli atteggiamenti diffusi 
        nella comunità ebraica fu proprio quello - alimentato e sperimentato 
        in tanti secoli di persecuzione - di aspettare che "passasse la nottata". 
        Infine ci mostra ancora una volta che la parola Olocausto non bisogna 
        usarla: fu distruzione, fu Shoah, e proprio per questo "la vita è 
        bella": non perché nel Lager ci sia un'umanità da salvare 
        (lo dimostra il tedesco che vuole conoscere solo la risoluzione del rebus); 
        non perché si debbano trovare elementi necessariamente consolatori; 
        non perché si riproduce il mito "italiani brava gente" 
        (chi organizza la lezione sulla razza ariana? chi dipinge il cavallo? 
        chi è indifferente alla sorte degli ebrei?). La vita è bella semplicemente perché molti 
        dei sopravvissuti dei Lager hanno avuto - in modo assai meno poetico ed 
        iperbolico, in forme incomprensibili ed impercettibili, in gesti improvvisi 
        ed irripetibili - un fratello, una madre ma soprattutto un improvvisato 
        amico che gli ha ricordato la vita con un gesto di solidarietà 
        o solo con un racconto del passato. Spesso è su questo che hanno 
        costruito la possibilità di un futuro. torna in alto  
         GRAN PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA DI CANNES AL FILM 
        "LA VITA È BELLA" DI BENIGNI  
         Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film 
        di Roberto Benigni "La vita è bella" è tornato a casa con 
        il Gran Premio Speciale della Giuria, e il regista-attore toscano è 
        stato salutato con un tripudio di applausi e con unanimi commenti di soddisfazione 
        della critica internazionale. Il film è al centro di accese discussioni fin 
        da quando è apparso sugli schermi: Benigni ha inventato una favola 
        ambientata in larga parte in un campo di concentramento nazista, realizzando 
        una pellicola a tratti anche molto emozionante. Gli ex deportati nei Lager nazisti si sono divisi nel 
        giudizio, come è ovviamente naturale in un caso che tocca corde 
        tanto sensibili. Quale che sia il giudizio di ciascuno sul film, pensiamo 
        che faccia comunque che l'opera di Benigni abbia ricevuto un così 
        alto riconoscimento internazionale, richiamando alla memoria, in tempi 
        di così facili rimozioni, il dramma vissuto dai popoli europei 
        oltre mezzo secolo fa. In merito alla pellicola registriamo dopo quelli pubblicati 
        negli scorsi due numeri del nostro giornale, i pareri di due ex deportati: 
        Gilberto Salmoni di Genova e Elisa Missaglia di Pescara. Sono due pareri 
        diametralmente opposti: il film premiato a Cannes suscita davvero emozioni 
        profonde. Con questi commenti possiamo considerare chiuso l'argomento. torna in alto   
         BENIGNI NON SCHERZARE COL DOLORE di Elisa Missaglia - Matricola Auschwitz 76147  
         Sono una reduce dei campi di sterminio. Non ho visto 
        e non vedrò il film di Benigni, invito però l'illustre Benigni 
        a non scherzare su quello che è stato. Se lui come me e tanti altri 
        avesse vissuto mesi e anni nell'inferno del Lager non avrebbe voglia di 
        far ridere. Già sono in tanti a non voler credere all'atrocità 
        dei Lager, ci vuole pure di metterci in ridicolo? Cordiali saluti torna in alto  
         HO APPREZZATO LA SUA SENSIBILITÀ E CARICA UMANA di Gilberto Salmoni - Genova - ex deportato a 
        Buchenwald  
         In merito al film di Roberto Benigni, realizzato con 
        l'assidua consulenza, tra gli altri, dell'amico Nedo Fiano anche lui liberato 
        a Buchenwald dove era giunto da Auschwitz, desidero esprimere la mia opinione 
        fortemente positiva che si allinea a quella espressa da altri e, in particolare, 
        da Anna Maria Bruzzone.  Ritengo fortemente positiva la ridicolizzazione del fascismo 
        e della teoria della razza che viene confutata magistralmente con la mimica 
        in modo certamente più efficace e comprensibile di documentate 
        obiezioni di natura scientifica. La seconda parte del film era sicuramente 
        più critica. Lì si andava nella favola che fatalmente allontanava 
        dalla realtà. E tuttavia la sofferenza e le atrocità non 
        venivano dimenticate, con il massimo rispetto verso quanti sono morti 
        nei campi o sono sopravvissuti dopo infinite sofferenze. Non essendo pienamente convinto della seconda parte alla 
        prima visione, ho voluto rivedere il film e mi sono confermato in una 
        opinione largamente positiva e nell'apprezzamento non solo della fantasia 
        di Benigni ma anche della sua fortissima sensibilità e carica umana.  
       torna in alto  LA VITA E’ BELLA di Pietro Farro  
         "Solo il riso - irrisione sistematica, falsetto autoderisorio, 
        smorfia convulsa - garantisce che il discorso è all'altezza della 
        terribilità del vivere e segna una mutazione rivoluzionaria", così 
        scrive Italo Calvino in Una pietra sopra. La serietà del comico, l'inscindibile complementarietà 
        di comicità e tragedia sono punti cardine di ogni buona teoria 
        del comico e anche della poetica di ogni grande umorista: da Chaplin a 
        Woody Allen, da Pirandello a Fo, da Flaiano a Benni, e molti altri se 
        ne potrebbero citare. Da oggi a questo elenco bisogna aggiungere anche 
        il nome di Roberto Benigni. Il suo ultimo film La 
        vita è bella - un film che ha un'anima, come ha scritto Irene 
        Bignardi - è infatti una perfetta fusione di tragedia e commedia. 
        Una splendida dimostrazione di come l'umorismo, al suo grado più 
        alto, possa permettersi di affrontare qualunque argomento. Di come si 
        possa far ridere raccontando una delle pagine più brutte della 
        storia dell'umanità, senza per questo essere irridenti; anzi preservando 
        intatta la carica drammatica degli eventi narrati. Infine anche un esempio 
        di come si possano mettere in scena le storie più dolorose senza 
        far ricorso ai luoghi triti della retorica. La prima metà del film è in realtà una deliziosa 
        ed esilarante commedia, poi, quando nella vita dei protagonisti irrompe 
        la tragedia, il tono cambia fatalmente. Potrebbe sembrare un difetto questa 
        netta cesura tra la prima e la seconda parte, se non fosse che anche nella 
        vita le cose spesso vanno proprio così, col dolore che, inatteso, 
        arriva a rovinare le esistenze fino a quel momento più felici.
 Ma per quanto dolore possa esservi, la vita vale sempre la pena di viverla 
        - possibilmente ridendo - fino in fondo. Perché la vita è 
        irriducibilmente bella. Anzi unica.
 Una menzione speciale merita Vincenzo Cerami, 
        da anni fido co-autore di Benigni e certamente uno degli scrittori più 
        completi - per la sua capacità di giocare sui molteplici tavoli 
        della letteratura del cinema e del teatro - presenti su piazza. torna in alto  
        Film Review MA LA VITA È DAVVERO BELLA: LO SPETTACOLO DELL’OLOCAUSTO, OVVERO DELLA NECESSITÀ 
        DEL KITSCH     di  Erminia Passannanti, UCL 2000 © 2001 Jewish prisoners in 1938. Source: Dachau Memorial Muse 
          La questione che intendo riaffrontare è se sia 
        legittimo rendere l’Olocausto oggetto di umorismo. Se si, qual è 
        il senso della proposta in chiave tragicomica del tema dell’Olocausto 
        nel film La vita è bella anche alla luce dell’attuale crisi 
        tra Israele e Palestina e la recrudescenza di antisemitismo a cui stiamo 
        assistendo in Europa e nel mondo.  Prima di addentrarmi nelle ragioni della mia polemica 
        nei confronti del film di Benigni, va ricordato in quale tradizione si 
        collochi il momento storico di quest’opera. Dalla fine degli anni Quaranta 
        e all’interno del progetto neorealista, la persecuzione degli ebrei nell’Italia 
        fascista, la deportazione ai campi di sterminio nazisti di Dachau e Auschwitz 
        e gli esiti devastanti della seconda guerra mondiale sulla società 
        italiana furono temi centrali di note opere letterarie e filmiche. Nel 
        decennio successivo alla Liberazione, i protagonisti della scena letteraria 
        neo-realista trovavano nei presupposti antifascisti di Pavese e Vittorini 
        il motore di un intervento artistico affiancabile all’azione politica 
        e riconoscevano, dunque, in un socialismo umanitario e antidogmatico la 
        comune base ideologica di una critica radicale delle istituzioni del potere 
        responsabili del tracollo della cultura umanistica.  La luna e i falò, di Cesare Pavese, L’Agnese 
        va a morire, (1949), di Renata Vigano, Una storia italiana, 
        (trilogia comprendente il Metello), di Vasco Pratolini, Cristo 
        si è fermato a Eboli, di Carlo Levi (1945), Se questo è 
        un uomo, di Primo Levi , La storia , di Elsa Morante, La 
        Ciociara, di Alberto Moravia, I 23 giorni della città di 
        Alba, di Beppe Fenoglio (1952), e Si fa presto a dir fame, 
        di Piero Califfi (1955), affrontavano, dunque, l’odissea bellica sulla 
        base di esperienze soggettive che assumevano un carattere universale quale 
        incubo collettivo. Lo stesso avveniva in cinematografia, con i film di 
        Pier Paolo Pasolini, De Sica, Visconti, e Rossellini.    Tuttavia, alla fine degli anni Cinquanta, a partire dalla 
        svolta provocata dalla pubblicazione nel 1956 del Metello, la prospettiva 
        storico-sociologica della produzione neorealista doveva scontrarsi con 
        le proposte dissidenti e avanguardistiche che sollevando il problema dell’autonomia 
        dell’arte e l’esigenza di un’innovazione formale, esacerbarono le polemiche 
        sorte intorno al Metello di Pratolini, pubblicato nello stesso 
        anno di Ragazzi di vita(1955) L’effetto della tensione irrisolta 
        tra le istanze dei nuovi linguaggi emergenti all’interno del dibattito 
        neo-realista ne determinò la crisi. Allo stesso tempo, sullo sfondo 
        della guerra fredda, e nel frenetico clima delle alleanze di partito, 
        il mandato dei mass media di formare una nuova coscienza nazionale, democratica 
        e antifascista sembrava perdere forza e compattezza. Un primo attacco 
        agli stilemi del neorealismo venne da Paolini, che mise in luce il problema 
        dell’evoluzione artistica delle forme e dei linguaggi nell’ambito di una 
        stretta aderenza a una poetica debitrice a un’ideologia. Allo stesso modo, 
        Calvino, rivalutando le istanze delle avanguardie storiche surrealista 
        e simbolista, mostrava l’urgenza di un impegno individuale dell’artista 
        verso il rinnovamento stilistico del romanzo.    Jurgen Hbermas, nei suoi scritti politici sulla storia 
        moderna della Repubblica Federale tedesca poneva l’accento sull’ origine 
        culturale degli orrori del nazismo e sull’urgenza di una rottura con i 
        valori della tradizione e dell’identità nazionale che resero possibile 
        l’aberrante fenomeno, ovvero sulla responsabilità individuale e 
        collettiva dei grandi errori storici. Rifacendosi al Lukacs di La distruzione 
        della ragione (1954), e ripercorrendo la filosofia irrazionalista 
        che da Schelling giunge fino a Hitler, Habermas mostra come a una valutazione 
        retrospettiva, la storia tedesca sia essenzialmente una storia di complicità 
        collettiva con l’ideologia di Hitler. La presa di coscienza da parte di 
        un popolo che lo rende capace di opporre resistenza a tali dinamiche segue, 
        secondo Habermas, lo stesso percorso d’apprendimento collettivo, attraverso 
        i momenti di autoriflessione forniti non solo dalle festività nazionali 
        quali l’8 maggio, che, in Germania, celebra la fine della guerra e la 
        Liberazione da un regime in cui il popolo si era tuttavia così 
        bene identificato, ma dal cambiamento di mentalità ricavabile dalla 
        critica ai valori degenerati all’interno della civiltà europea 
        che con la persecuzione nazista negava ogni principio razionale. Habermas 
        ribadisce così la centralità della cultura come medium per 
        la crescita di una civiltà che trascenda i confini nazionali e 
        sia capace di riflettersi criticamente. Quale lezione abbiamo appreso 
        dall’Olocausto e in che misura siamo in grado di trasmettere e tradurre 
        questa memoria storica? Nel 1986, Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, 
        sottolineava la presenza ad Aschwitz di una "zona grigia" di 
        esseri costretti alla collaborazione con la macchina infernale nazista. 
        Egli forniva un’analisi sottile e veritiera dei rapporti tra oppressi 
        ed oppressori, vittime e carnefici. Per Levi, solo una retorica schematica 
        e superficiale può sostenere che lo spazio tra gli uni e gli altri 
        sia vuoto, come appare nel film di Benigni creando quella che per Levi 
        è la falsa dicotomia tra il bene e il male.  Negli ultimi dieci anni diversi registi cinematografici 
        hanno voluto commemorare la tragedia umana dell’Olocausto. Già 
        alla fine degli anni Settanta, Pasolini aveva proposto con il film Salò 
        o le 120 giornate di Sodomia, una rilettura espressionista degli orrori 
        nazisti, di cui indicava le devianze sado-maso nella Repubblica di Salò, 
        lo stato fascista "pupazzo" messo in piedi all’indomani della 
        resa italiana agli Alleati. Nell’ottobre 1976, la prima del film di Pasolini 
        suscitò enorme scandalo e fu sottoposto a immediata censura. Tuttavia, 
        al di là della ricostruzione orgiastica degli ‘apparati scenici’ 
        della Repubblica di Salò, Pasolini rappresentava con radicale pessimismo 
        espressionista la fine della prospettiva storica e il deperimento delle 
        capacità catartiche della tragedia. Prosciolto il veto della censura, 
        non cessarono le polemiche intorno al film che disattendeva ogni aspettativa 
        consolatoria con il potere sovversivo delle sue figurazioni sulle comode 
        convenzioni degli spettatori.   
         The Shindler’s List del regista ebreo-americano 
        Spielberg, e La vita è bella, di Benigni restituiscono il 
        genocidio alla sfera del narrato. Il problema che si poneva a entrambi 
        era di riuscire a presentare questi contenuti a un’audience ormai 
        lontana da quelle circostanze storiche (la larga fascia degli spettatori 
        è oggi ampiamente rappresentata da individui di una generazione 
        che ha conosciuto il nazismo solo attraverso la documentaristica storica). 
        Alla luce di questi ostacoli generazionali e delle richieste di mercato, 
        se Spielberg non ha rinunciato alle comodità di Holliwood, le più 
        modeste risorse di Benigni gli hanno non di meno consentito di spettacolarizzare 
        l’Olocausto, ricorrendo addirittura agli stilemi propri della commedia. 
        Bisogna, nondimeno, riflettere se questa progressiva distanza autorizzi 
        l’ingresso dell’evento storico nell’orizzonte di appiattimento etico-morale 
        proprio dell’arte postmoderna.  La distanza di per sè non è necessariamente 
        un dato controproducente. Nel noto saggio "L’opera d’arte nell’era 
        della riproduzione meccanica", Benjamin spiegava come la dissoluzione 
        dell’aura quale effetto dell’applicazione della tecnologia al prodotto 
        artistico, nella cultura di massa, possa assumere una valenza positiva, 
        offrendolo allo spettatore il distacco necessario a una revisione critica 
        del messaggio. Nell’ottica di Benjamin, la perdita della dimensione mitica 
        dell’opera d’arte privilegia il momento comunicativo tra il prodotto artistico 
        e il pubblico fruitore. Un’eccezione è costituita dal cinema d’arte 
        di registi quali Fellini, Bergman Truffaut o Visconti, anche quando abbiano 
        usufruito delle mega produzioni di Hollywood, e per il cinema d’ avanguardia 
        che con la loro forte componente meta-filmica favoriscono l’ esplorazione 
        delle possibilità formali del medium comunicativo anche in ragione 
        di una data teoria o progetto estetico. In questo genere di produzione 
        cinematografica, la storia, dice Benjamin, è in sé un mero 
        pretesto subordinato al mantenimento all’aura di autosufficienza e universalità 
        che lo strumento tecnologico della produzione filmica vorrebbe dissolta. 
       Fredric Jameson, tra i più autorevoli teorici 
        del cinema, ebbe ad esprimere il suo scetticismo rispetto all’ottimismo 
        di Benjamin, mettendo in evidenza la componente voyeristica e connivente 
        dell’essere spettatore. Secondo Jameson, nell’esplorazione dei nuovi linguaggi, 
        i colossal del cinema d’autore hanno tendenzialmente perseguito un’intensità 
        stilistica autoreferenziale che è a tutto svantaggio della rilevanza 
        e attendibilità storica. Il consolidarsi sul mercato cinematografico 
        di tali stili - nota Jameson - come espressioni di un discorso privato 
        contribuisce a ridurre ulteriormente il contatto del prodotto artistico 
        con le strutture sociali, in virtù della supposta presenza legislativa 
        dell’autore che accresce l’alienazione del pubblico dalla storia narrata. 
        Lo spettatore è indotto a partecipare da una distanza che, mentre 
        sembra agevolare una libertà critico- interpretativa, più 
        spesso lo sottomette alla visione imposta dal regista.  Al contrario, nella cinematografia postmoderna, fondata 
        essenzialmente su una appiattimento delle idee a favore della molteplicità 
        degli stili e della comicità del pastiche, sottraendo importanza 
        all’autore si pone l’enfasi sul momento recettivo. Ma di cosa hanno bisogno 
        i fruitori per esercitare tale autonomia interpretativa? E che valore 
        hanno le interpretazioni individuali rispetto a un soggetto quale l’Olocausto 
        se la storia è legittimata ad essere mera narrativa? Il segno distintivo 
        di film quali La vita è bella è una nostalgia retrò, 
        che ripropone non tanto il contesto storico, ma piuttosto la cultura di 
        una data epoca. Ne consegue il ricorso al pastiche come ripensamento 
        ironico della storia. Ovvero come tendenza a semplificare la storia. Come 
        notava Levi ne I sommersi e i salvati, se questo desiderio di semplificazione 
        è giustificato, la semplificazione in sè non sempre lo è. 
        Il falso taglio netto operato dal film di Benigni ne è la prova, 
        con il suo sorvolare le essenziali ambiguità esistenti all’interno 
        del Lager. Inoltre, con la sua riproposta del varietà, la sua attenzione 
        all’arte pittorica e architettonica, alla musica jazz americana e alla 
        moda liberty, in voga durante il fascismo, la prima parte del film di 
        Benigni, rievocando il periodo che va dal 1938 al 1942, mette 
        in dubbio la validità della cultura ufficiale trasmessa dalle istituzioni 
        scolastiche fasciste, che viene ridicolizzata nella scena della visita 
        del protagonista Guido alla scuola elementare in veste di falso ispettore 
        del Ministero al fine di corteggiare la sua futura moglie, la maestrina 
        Dora. La favola di questa commedia sentimentale ricorda, a pensarci, 
        i musicals americani di Fred Astaire e Ginger Roger. La repentina 
        messa in scena delle tematiche legate alla persecuzione degli ebrei nell’Italia 
        filonazista segna l’inizio della seconda parte.  Il piccolo Giosuè, nato da Dora e Guido, 
        ha cinque anni quando legge sulla saracinesca della minuscola cartolibreria 
        di suo padre un graffito antisemita. L’Italia è in guerra. Nel 
        giro di pochi metri di pellicola, padre e figlio vengono fatti salire 
        su un treno stipato di uomini simile a un carro bestiame e deportati in 
        Germania dove vengono rinchiusi in un campo di concentramento. Il piccolo 
        Giosuè ha sentore del pericolo imminente, ma Guido, desiderando 
        evitargli un trauma, dà inizio a una messinscena allo scopo di 
        celare l’autentico fine di quel viaggio. Sotto gli occhi ignari di Giosuè 
        ha luogo l’Olocausto che Guido si ostina a presentare al figlio come un 
        grande gioco collettivo, alla fine del quale, se vittoriosi, si vincerà 
        "un carro armato vero". Va sottolineato che anche le SS ricorrevano 
        al pretesto ludico e alla simulazione (si ricordino le docce comuni che 
        mascheravano le camere a gas) per nascondere ai prigionieri le loro vere 
        intenzioni.  In La vita è bella, tuttavia, la 
        capacità di dissimulare la realtà è presentata come 
        un’attività creativa indispensabile alla sopravvivenza. L’elemento 
        bizzarro di questa dissimulazione non sfugge allo spettatore 
        che è indotto a ridere alla battuta: "Ci bruciano nel forno? 
        Il forno a legna l’avevo sentito ma il forno a uomo, mai, eh! Oh, è 
        passata la legna, passami l’avvocato! [...] Va a finire che un giorno 
        ti dicono che con noi ci fanno i paralumi, i fermacarte... e te ci credi 
        veramente!) Dobbiamo chiederci quale valore abbia effettivamente per noi 
        questo riso a cui si cede? Se è valida in questo contesto la teoria 
        del riso di Backtin contro le istituzioni del potere. Ne La vita è 
        bella, la realtà traspare momentaneamente solo come emblema, 
        feticcio, allorquando, in lontananza il Benigni-regista fa intravedere 
        al pubblico un cumulo dei corpi oltre la cortina di nebbia 
        in cui il Benigni-attore ha smarrito la strada.  Per Gianni Celati, le associazioni di elementi incompatibili, 
        tipiche della comicità, annientano il dramma ed eliminano la differenza 
        tra ordini e valori. La tradizione del riso plebea e dissacratoria si 
        prende giustamente beffe del sacro: essa è utile alla destituzione 
        dell’autorità costituita e ha, dunque, un potere sovversivo. Ma 
        nel parodiare l’Olocausto, con il pretesto di restituire l’evento al pubblico 
        e alla sua capacità interpretativa tramite questa patina di accessibilità, 
        Benigni ha, di fatto, sostanzialmente strappato Auschwitz alla Storia. 
       Nel pamphlet Mass Civilisation and Minority Culture, 
        pubblicato negli anni Trenta, il suo autore, Leavis nota come 
        la valutazione di una data epoca sia affidata a una ridotta minoranza 
        che decide di porsi come coscienza di un popolo attraverso l’interpretazione 
        storica, letteraria o artistica. Ma cosa accade quando il prodotto artistico, 
        svuotato dei vecchi presupposti ideologici e programmatici, come si verifica 
        attualmente è affidato, nella sua sinistra estemporaneità, 
        alla cultura di massa e condizionato alle esigenze di mercato secondo 
        il dettato "Date al pubblico ciò che vuole" attraverso 
        favole d’intrattenimento che hanno il solo scopo di garantirsi il consenso 
        acritico dell’audience. Ma ciò che il pubblico chiede è 
        davvero la trasposizione del soggetto filmico in uno spazio ricreativo 
        che garantisca l’illusione di una dimensione reale guadagnata grazie a 
        un’emotività a basso costo?  Una chiara indicazione è data nel film 
        di Benigni dal primato dell’immaginazione nell’educazione dei bambini, 
        un’immaginazione che si traduce in ‘menzogna’. Il pubblico di è 
        commosso dinanzi a questo ‘inganno’ a fin di been, espressione dell’amore 
        faterno. Ma siamo davvero d’accordo con questa pedagogia? E’ morale che 
        si eviti alle nuove generazioni il trauma emotivo che in un film come 
        Salò di Pasolini è indotta dallo spettacolo dell’orrore? 
        Ne la Vita è bella, l’inganno comico di Guido è motivato 
        dalla sua preoccupazione paterna di presentare al figlio un ipotetico 
        futuro che potrebbe ancora essere bella. Ma questa comprensibile 
        preoccupazione genitoriale è sufficiente a giustificare l’umorismo 
        nero che grava sulla seconda parte del film? Come accettare la resa comica 
        di una tragedia umana come quella consumatasi a Auschwitz senza percepire 
        un ambiguo livello di complicità con il sadismo beffeggiante del 
        persecutore? Ricorrendo alla comicità del teatro cabarettistico, 
        e riprendendo la critica ai rapporti gerarchici vigenti all’interno delle 
        istituzioni della cinematografica di Chaplin e Buster Keaton, Benigni, 
        tuttavia, e malgrado l’Oscar, non è riuscito ad elaborare un’uguale 
        tale raffinatezza metaforica, sconfinando in più di un’occasione 
        scenica nel cattivo gusto e nel gratuito.  L’irrealtà trasognante della serenata di Guido 
        a Dora attraverso gli altoparlanti del campo di sterminio è una 
        rievocazione degli idilli dei musicals holliwodiani. Tale ripensamento 
        ironico della storia, facendo a meno delle coordinate del tragico, opera 
        dunque una riattivazione estetico-nostalgica dei dettagli culturali coevi 
        al periodo trattato, e pone in secondo il fatto storico. Negli ultimi 
        dieci minuti del film, Guido, trascinato in uno squallido angolo dal soldato 
        nazista che di lì a poco lo fucilerà brutalmente, consapevole 
        di essere sotto lo sguardo del figlio, nascosto in una cassetta metallica, 
        recita per l’ultima volta la parte del burattino, quindi scompare dal 
        suo campo visivo. Il senso meta-filmico di questa scena è elevato 
        – lo spiraglio da cui Giosuè osserva il padre trascinato a morte 
        è simbolico dello schermo cinematografico dinanzi al quale, anonimo, 
        inosservato, nascosto nel buio della sala, lo spettatore è chiamato 
        a confondere la realtà con la fiction.  Kitsch è, in chiusura, l’entrata in scena del 
        grande carrarmato americano, che il bambino, ancora al riparo nel suo 
        nascondiglio e sempre immerso nello stupore indotto dal padre, ammira, 
        sgranando gli occhi, come dinanzi a un enorme giocattolo bellico. Il finale 
        nello stile di "Arrivano i nostri!" ricorda i film della guerra 
        tra gli indiani Apache e l’esercito del Generale Custer. Da un punto di 
        vista politico, tale finale non fa che confermare il mito dell’eroismo 
        americano e il ruolo risolutore degli Stati Uniti nelle tragiche vicende 
        della vecchia Europa, proponendo un’immagine edificante dell’America da 
        confezionata per le nuove generazioni.  Ma a chi è utile, ci si deve chiedere soprattutto 
        oggi, l’ignoranza dei fatti in cui Guido ha tenuto il suo bambino? Alla 
        famiglia? Alla nazione? All’individuo?  Il filosofo Cioran ha notato come l’eclettismo nasca 
        là dove l’energia creativa si sia esaurita, dove le possibilità 
        si siano prosciugate e l’artista non abbia altra strada che il ricorso 
        all’uso parodistico di tutto il materiale accumulato e selezionato in 
        base a giudizi di valore e eticità del tutto sommari. Kandiski ebbe a dire: "Lascio questa città 
        se solo sento uno scherzo sull’Olocausto." Oscillando tra tragedia 
        e commedia, cultura popolare e cultura elitaria, realtà e favola, 
        l’ eclettismo di Benigni appare, dunque, una fragile sintesi di contenuti 
        e forme che, non riuscendo a destituire il tragico con un’azione sovversiva 
        pari al Salò di Pasolini, ricorre, di necessità, 
        al kitsch non possedendo in sé un’alternativa autentica.  torna in alto LA MATURITA' DEL COMICO di Giovanni Romani   
         Roberto Benigni è diventato un 
        ometto. Con un coraggio davvero dissonante in quest’epoca vile di fuochi 
        d’artificio di battute e di comicità "sans souci", Benigni a sorpresa 
        smette i panni dell’eterno Gian Burrasca e confeziona un film che lascerà 
        di stucco i fanatici del "corpo sciolto".  La vita è bella non è un film perfetto, 
        ma è un film vero e commosso, prima che commovente. Viene da lontano, 
        dalla grande lezione di Chaplin per il quale la risata doveva scaturire 
        da storie cupe e drammatiche (Il grande dittatore, Il monello, 
        Monsieur Verdoux), con una differenza: Benigni non è un 
        regista di talento. Il punto debole de La vita è bella è 
        proprio una certa piattezza stilistica, un’avvertibile mancanza di disinvoltura 
        con la macchina da presa che si traduce in una regia lievemente anonima, 
        senza, peraltro, compromettere la notevole resa drammatica dell’insieme. 
       D’altronde, è del pari palpabile la sincera passione 
        del regista per la storia, scritta a quattro mani con il sempre più 
        bravo Vincenzo Cerami, un amore assoluto per il soggetto che fa passare 
        in secondo piano eventuali carenze tecnico-stilistiche. La vita è bella non è certo il tipico 
        film natalizio ed è straordinario che, schiacciato tra Fuochi 
        d’artificio ed A spasso nel tempo 2, il "comico" campione d’incassi 
        con le sue poetiche sciocchezze osi aggredire il proprio pubblico con 
        una storia sui campi di sterminio. E lo sterminio è vero in tutto il suo orrore insensato, 
        non è parodia, e i nazisti non parlano come le "sturmtruppen", 
        ma sono dei reali mostri assassini, e gli uomini diventano davvero saponi 
        e bottoni e la gente muore sul serio nella commedia di Benigni. E tutta 
        questa verità, rivelata ad un pubblico attonito, viene trasfigurata 
        in gioco agli occhi del piccolo Giosuè, l’unico a credere ad un 
        mondo di commedia ("…ci si ammazza dalle risate!") e ad uscire puro ed 
        intatto dall’inferno grazie alla forza della fantasia. La bellezza del film di Benigni è tutta qua, nel 
        cortocircuito tra comicità e dramma, tra bugie e realtà, 
        tra gioco e morte, tra orrore e buonumore, e non è poco. Anche 
        strutturalmente la pellicola segue questa traccia, con una prima parte 
        più prettamente comica che offre il destro al protagonista di esibirsi 
        nelle sue gag elettriche, pur riuscendo, finalmente, a mantenersi entro 
        le righe del realismo interpretativo, benché clownesco, creando 
        un personaggio credibile come antieroe, buffo e patetico nel suo agnosticismo 
        politico e nell’illusione di una possibile felicità.  Guido è solo un ometto che cerca di sbarcare il 
        lunario, neanche si rende conto di essere ebreo, forse non sa neppure 
        che vuol dire, non è un antifascista politico, ma "fisico", non 
        è coraggioso, ma solo incosciente ed allegro ed ama pazzamente 
        sua moglie ed il suo bambino. Tutto qui. Ma quando, nella seconda parte, 
        il tono della commedia trascolora nelle cupe tinte dell'Olocausto, allora 
        Guido, sempre inconsciamente e suo malgrado, compie il più grande 
        atto d’eroismo concepibile: reagisce all’orrore con la fantasia, mente 
        alla morte e salva il proprio bimbo con l’ostinazione dell’immaginazione. Ottimi gli interpreti, da un’intensa Nicoletta Braschi 
        ad un ritrovato Giustino Durano che, al di là di un’impressionante 
        somiglianza con Benigni, ricorda per timbro e brillante aplomb Walter 
        Matthau, fino al piccolo Giorgio Cantarini: bambino e non bambolotto nei 
        cui occhioni scuri le atrocità umane si rispecchiano senza lasciare 
        tracce nell’anima. torna in alto  
         HO VISTO IL FILM LA VITA E' BELLA di Renata Ottenfeld Imola, 13 aprile 1999 – Giornata dedicata alla memoria 
        dell'olocausto.  
         Cari fratelli ebrei... A proposito del film -La vita e' bella- di Roberto Benigni. Ho visto solo da pochi giorni -La vita e' bella- dietro 
        suggerimento di un caro amico e l'invito di mio figlio Matteo che hanno 
        vinto alcune mie resistenze dovute ad una personale difficolta' a trovarmi, 
        almeno fino ad oggi, in sintonia con Benigni (piu' per certe apparizioni 
        televisive che non con i pochi film visti), ma anche al timore di poter 
        condividere le perplessita' di quanti, pur valutandolo un bel film, vi 
        hanno colto una rappresentazione non realistica della Shoah, forse addirittura 
        banalizzante, tale da prestarsi, soprattutto nelle giovani generazioni, 
        a diventare un evento sbiadito se non addirittura negato sull'onda di 
        un revisionismo storico purtroppo sempre presente. In fondo avevo il timore 
        di poterne soffrire. La indicibilita' della specificita' ontologica della 
        Shoah, quale progetto di inondante sofferenza e totale annientamento, 
        che costituisce il filo conduttore delle memorie e dei racconti dei sopravvissuti, 
        ha sempre posto interrogativi e difficolta' a chi avesse avuto il desiderio 
        e il coraggio di rappresentarla. Ma si puo' veramente rappresentare la Shoah? E soprattutto 
        e' giusto e lecito farlo? Cio' vale non tanto per il testo scritto, soprattutto 
        quando e' opera di un sopravvissuto (tutti pensiamo e ricordiamo Primo 
        Levi) quanto per il testo cinematografico. In questo caso l'utilizzo, 
        oltre che delle parole, delle immagini visive, rende tutto piu' complesso. Pur potendo contare sull'ampiezza comunicativa dello 
        spettro visivo, un autore e' in grado di elaborare la assoluta tragicita' 
        di eventi persecutori la cui immaginazione e' sempre stata superata dalla 
        realta'? E il suo libero atto di creazione artistica sapra' renderli in 
        modo tale da condurre il nostro cuore e la nostra mente a conoscere e 
        comprendere l'atroce verita' senza esserne talmente sopraffatti da non 
        trovare scampo dalla angoscia cosi' sprigionata? Un film, se e come opera d'arte, non e' la trasposizione 
        ne' la reificazione della realta' fattuale, ma ne e' appunto una rappresentazione 
        che scaturisce dalla elaborazione del suo autore e dove il grado di aderenza 
        alla realta' puo', in virtu' della sua liberta', collocarsi all'interno 
        di un ventaglio molto ampio di possibilita'. Sta all'autore con i suoi 
        scopi, con la scelta dell'oggetto da rappresentare e del come farlo, ed 
        infine alla sua intelligenza morale decidere fino a che punto e' giusto 
        andare e dove e' opportuno fermarsi. Ma in questo caso il suo giudizio 
        morale e' un giudizio difficile poiche' le opzioni etiche possono anche 
        essere in conflitto fra loro. Il desiderio e la volonta' di non tradire 
        la storia e di farla conoscere spingono un autore a scelte di massima 
        aderenza visiva alla realta' fattuale, ma cosi' facendo egli puo' tradire 
        la propria coscienza e l'intima convinzione che una tragedia cosi' assoluta 
        non puo' essere rappresentata in tutta la sua sconvolgente discesa agli 
        inferi. Il pudore, il rispetto per la sofferenza e la memoria, il senso 
        della dignita' umana, la ricerca di un atto riparatore, dovrebbero fermare 
        ad un certo punto la sua mano. Per questo molte persone, di cinema e non, ritengono 
        che per conoscere e far conoscere la realta', e questo e' un dovere per 
        tutti, il mezzo piu' idoneo e' la presentazione della pura nudita' documentaria. 
        si puo' anche andare oltre per raccontare, attraverso i documenti, i luoghi 
        e i volti, come ha fatto claude lanzmann con il suo film -Shoah-, film 
        per eccellenza sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, 
        nel quale l'autore fa la scelta estrema di non rappresentare l'irrapresentabile 
       Diversi e di diverso spessore sono stati i modi con cui 
        il cinema ha affrontato la Shoah: la Shoah come sfondo, come universo 
        concentrazionario sul quale aprire una finestra e fissarne un segmento 
        o anche un solo frammento, come matrice di ulteriore orrore e sofferenza, 
        ed altri ancora. Non desidero fare confronti ma mi preme tuttavia ricordare 
        la Schindler's list di Steven Spielberg. in questo film l'autore prende 
        potentemente di petto la realta', vi si immerge, si ferma davanti alle 
        camere a gas e ne esce incontaminato; pur rimanendo nel registro della 
        tragedia ha la volonta' e sente il dovere di porre al centro del suo racconto 
        la storia di un uomo e della sua azione riparatrice che salvera' piu' 
        di mille persone dallo sterminio. Oskar Schindler e' una persona realmente 
        esistita, il suo nome e' iscritto nel viale dei giusti tra le nazioni 
        a Yad Vashem di Gerusalemme e piu' volte, anche in virtu' di questo film, 
        e' stato citato e preso ad esempio nelle terribili circostanze della guerra 
        oggi in atto nei balcani. Il tema della salvezza lega questo film al film 
        di Benigni, pur nella loro sostanziale diversita'. Ma vi e' un altro legame importante e significativo. 
        ne -La vita e' bella- Benigni cita, credo consapevolmente, la -Schindler's 
        list-. Penso che tutti coloro che hanno visto questo film ricordino la 
        bambina dal cappottino rosso (unico colore del film in bianco e nero): 
        nella piu' totale anonimia dell'opera di spersonalizzazione avvenuta nei 
        campi di sterminio e' il simbolo della unicita' e irripetibilita' di ogni 
        persona che per 6 milioni di volte nell'inferno della Shoah e' stata annientata. 
        Quale ondata di orrore e di pieta' in piu' ci coglie quando la riconosciamo 
        morta fra altri cadaveri. Nel film di Benigni questa bambina e' diventata la bambina 
        con il gattino, che prima vediamo insieme ad altri deportati e che poi 
        sparisce alla vita e alla nostra vista, mentre il gattino si aggira miagolando 
        e frugando in mezzo ai vestiti dismessi e ammonticchiati davanti alle 
        camere a gas. L'aver scelto questa citazione, ed averla inserita nel racconto 
        del film, non all'interno del gioco, ci testimonia il suo rispetto e la 
        sua pieta'. Ma come si avvicina Benigni alla Shoah? -La vita e' bella- 
        non e' un film sulla Shoah. È uno splendido film, di grande intelligenza creativa, 
        e' un film altamente drammatico, ma con una sua commedia interna, e' un 
        film potente, di grande forza evocativa, nel quale il regista, consapevole 
        dell'intimo intreccio fra tragedia e commedia, attribuisce sapientemente 
        all'aspetto comico una possibilita' di comprensione dei fatti umani e 
        della tragedia proprio perche' si mette da un'angolazione diversa, fa 
        un passo indietro rispetto all'oggetto del suo raccontare e, avendo nelle 
        sue corde il riso e il sorriso, riesce ad attirare l'attenzione in modo 
        intenso sulla realta': Lo humour e il riso sono fra le risposte appropriate 
        alla realta', e questo ha una funzione rassicurante, perche' suggerisce 
        che la tragedia non ha ne' l'unica parola ne' quella finale. La vita e' bella e' un film che narra di un grande amore 
        paterno, e' la storia di un padre, Guido, che salva la vita al proprio 
        figlio, Giosue', internato con lui in un campo di concentramento, inventando 
        una favola, trasformando per il bambino e ai suoi occhi, lo spietato ordinamento 
        concentrazionario in un gioco a premi che prevede concorrenti, prove da 
        superare, acquisizione di punti, eliminazione di concorrenti e, per il 
        fortunato che arrivera' primo nella corsa ai 1000 punti previsti, la vincita 
        di un carro armato. Ma il film in se' stesso non e' ne' una favola ne' un 
        gioco. È il racconto di una tragedia che racchiude una preziosa 
        favola quale contrappunto all'assurdita' della tragedia stessa. La geniale architettura dei diversi piani narrativi: 
        la favola e il gioco nella realta' del lager, la magistrale orchestrazione 
        dei diversi registri tragico e comico che accompagnano tutto il film, 
        fanno si' che lo svolgersi del dramma sia contrastato dalle potenti invenzioni 
        che caratterizzano il gioco e che sorprendono in modo crescente: tutto 
        cio' rende piu' credibile la favola che, ricordiamolo, non esisterebbe 
        senza il dramma che la sostiene. C'e' in questo film un gioco di intrecci, rimandi, combinazioni 
        e, per l'urto emotivo dato dalla sorpresa, non finiamo di stupirci per 
        il susseguirsi dei fuochi d'artificio disseminati nei momenti cruciali 
        della storia e del gioco in essa racchiuso.  La frizzante e incalzante comicita' della prima parte, 
        tutta tesa a comunicarci la visione che Guido ha del mondo e della vita, 
        che egli piega ai suoi desideri con un abile e inesauribile succedersi 
        di artifizi, se da un lato anticipa la capacita' inventiva che Guido dimostrera' 
        di avere nel lager, dall'altro, nel suo essere punteggiata dai presagi 
        del dramma che sta per compiersi, si lega in armoniosa coerenza alla seconda 
        parte del film. Non vi sono fratture tra la prima e la seconda parte del 
        film, esse sono distinte ma non scisse. Non c'e' mai uno scambio confusivo fra tragedia e commedia, 
        fra realta' e favola; vi e' piuttosto un diffondersi solidale dei diversi 
        piani e registri narrativi, ma la distinzione e' da qualsiasi sospetto 
        di non riconoscimento pieno della tragedia della Shoah. La crudele assurdita' 
        della situazione ci e' sempre presente anche se il film non presenta mai 
        alla nostra vista le atrocita' pur percepite. È proprio nella consapevolezza dell'orrore persecutorio 
        del lager che Guido inventa la favola e il gioco come contenimento della 
        tragedia stessa, perche' il piccolo Giosue' possa prenderne le distanze, 
        non prenderla sul serio (certo, i dubbi ogni tanto lo attraversano) e 
        vivere una esperienza che costituira' per lui un sofferto ma sereno ricordo. Momento a questo proposito cruciale e' la scena dell'ingresso 
        di Guido e Giosue' nella baracca che ha come unico arredo lugubri loculi 
        di legno. Confesso che all'inizio di questa scena sono stata presa da 
        un forte attacco di angoscia: la cupa asfissia della baracca aveva reso 
        affannoso il respiro e accelerato il battito del cuore; ero fisicamente 
        vicina a Giosue' immerso nell'indistinto gruppo dei compagni di sventura, 
        ma ben distinguibile in mezzo a loro, grazie a una sapiente organizzazione 
        percettiva figura-sfondo, e aspettavo con lui cosa sarebbe accaduto. Entrano 
        le guardie, grosse, urlanti e minacciose, per imporre il regolamento del 
        lager: Guido, con veloce determinazione, si offre di tradurre dal tedesco 
        ai compagni, ma soprattutto a Giosue'. Ed ecco che Guido, ribaltando la 
        situazione, improvvisa la traduzione che trasforma il regolamento 
        concentrazionario nelle regole del gioco a premi, dove il superamento 
        delle prove per la sopravvivenza reale si trasformano nelle prove della 
        gara ad ostacoli per vincere il premio finale. La mia ansia a questo punto 
        si e' placata e non sono stata piu' capace di togliere gli occhi di dosso 
        a Guido e a Giosue'. È questa una scena di grande cinema, di forte 
        impatto emotivo; di fronte a Guido determinato, serio, ma anche spaventato, 
        e che inventa, c'e' Giosue' che risponde con un sorriso complice, pieno 
        di meraviglia e di stupore, grato nel momento in cui scopre che il padre 
        aveva ragione: si tratta proprio di un gioco! e questa fiducia nel padre 
        e' piu' potente di qualunque altra cosa che noi sappiamo accadere nel 
        lager, che non vediamo ma che pero' immaginiamo mentre Giosue' grazie 
        a suo padre non vede e neppure immagina. È il valore della favola 
        che affranca dalla natura persecutoria e annientatrice dei luoghi e dei 
        tempi in cui essi si trovano. Questa fresca curiosita', questa serena disposizione, 
        non abbandona mai Giosue' fino alla fine della favola ma anche del film. 
        Guido muore, viene fucilato nel tentativo, fallito, di ricongiungersi 
        con la moglie; Giosue' esce dal nascondiglio nel campo ormai abbandonato 
        e ora deserto, e per nulla impaurito, ma in stuporosa attesa, vede avanzare 
        verso di lui il tanto desiderato carro armato che, premio reale all'interno 
        del gioco e della favola, e' al tempo stesso simbolo di vittoria e di 
        liberta' nella realta' della fine della guerra. E nell' abbiamo vinto! 
        gridato da Giosue' che ha ritrovato la mamma, si ricompongono solidalmente 
        i diversi piani narrativi: favola e realta' finiscono per coincidere. Il caro amico che mi ha suggerito la visione del film 
        mi ha anche comunicato un suo pensiero: se tutti i cittadini tedeschi 
        si fossero appuntati al petto, fin dall'inizio, la stella gialla, forse 
        la Shoah non si sarebbe compiuta, cosi' come il coro dei grazie, 
        da Guido abilmente orchestrato, che mimetizza Giosue' tra i bambini tedeschi 
        invitati ad una merenda nel lager, e alla quale egli partecipa per un 
        equivoco, disorientando le guardie, gli salva la vita. Pur nella distinzione dei timbri e dei toni di voce, 
        la geniale trovata di Guido ricompone nel coro e nella parola -grazie- 
        le differenze di lingua, razza e nazionalita'. Cari fratelli ebrei, sia che lo siate per nascita, per 
        religione, per tradizione, cultura, sia perche' vi sentite tali, vi auguro 
        di vedere il film La vita e' bella per quello che veramente e' 
        e per cio' che spero io sia riuscita a esprimere e trasmettere con questo 
        mio scritto. il riconoscimento profondo della Shoah rimane intatto nel 
        film e anche dopo di esso. So bene che nella realta' pochi sono stati 
        i bambini scampati e sopravvissuti, e questo pensiero riaccende dolori 
        e fa bruciare ferite ancora aperte, ma spero che il bambino salvato dalla 
        favola sia per ognuno di noi simbolo di salvezza ma anche un invito alla 
        nostra intelligenza e alla nostra coscienza alla giustizia e al rispetto 
        del valore delle persone. torna in alto 
         
          | Bellissimo  
           | torna in alto 
           |   
          | Cristiano, 15 anni, Roma. 
           | (12 Settembre 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Per una volta Roberto Benigni mi ha emozionato 
              in una sua interpretazione. Di solito mi sembra solo uno sballato, 
              invece in questo film mi ha proprio colpito. Un film bellissimo, 
              una storia molto interessante ma la fine è veramente infinitamente 
              triste. geniale l'idea di far diventare il campo di concentramento 
              un bel gioco... Giosuè è veramente dolce e indifeso. 
              Veramente un capolavoro del cinema italiano. Non deve mancare nella 
              collezione di un appassionato. Sigh... povero Roberto! Che brutta 
              fine! 
           |   
         
         
          | ...  
           | torna in alto 
           |   
          | Dea, 15 anni, prov.roma. 
           | (10 Settembre 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Trovo che tutti quelli che ritengono questo film 
              "comico" abbiano catturato solo una misera parte del significato 
              che vi e' celato.Sotto questa allegria si nascondono le atrocita'del 
              nazismo che un padre ha cercato di tenere nascoste al figlio, fingendo 
              che tutto fosse un bellissimo gioco a punti, dove chi vince riceve 
              un carro armato x premio...Sta allo spettatore riflettere. Per fare 
              un film sull'Olocausto non e' indispensabile spiattellare qua e 
              la' immagini di deportati x far commuovere... 
           |   
         
         
          | ...  
           | torna in alto 
           |   
          | mari, 18 anni, roma. 
           | (8 Settembre 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Immenso... non saprei cos'altro dire. 
           |   
         
         
          | Che difficolta'  
           | torna in alto 
           |   
          | Francesco, 27 anni, Roma. 
           | (2 Settembre 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Se si volesse parlare di come riesce a unire tragico 
              e comico, di come parlando di una cosa aberrante in modo leggero, 
              fa restare incollato lo spettatore allo schermo. molte persone non 
              guarderebbero mai un documentario su di un campo di concentramento, 
              molte persone pensano che sia più giusto dimenticare eliminando 
              il passato. la cosa stupenda che ha fatto quest'uomo è quella 
              di tener vivo il ricordo su di una tragedia di proporzioni immane 
              ricordandoci che cosa è l'amore, cosa è l'amore di 
              un genitore verso il figlio. io ho visto dal vivo alcuni di quei 
              campi e vi assicuro che non c'è un modo giusto di raccontarli. 
              non c'è. talmente assurda la scientificità di distruzione 
              e annientamento che saltano tutte le regole. che si azzerano tutte 
              le speranze e le ragioni. roberto inoltre credo che abbia avuto 
              un coraggio enorme. questo film è una di quelle cose che 
              vanno o bene, bene o male, male. non lo sai. sapete io ho bis-nonno 
              che quando ti racconta il giorno che l'hanno deportato in germania 
              su di un treno merci, scherza: ti dice che li tenevano stretti stretti 
              perchè non cascassero, che non gli davano da mangiare altrimenti 
              il viaggio gli avrebbe dato noia. e allora è giusto o sbagliato 
              questo modo di raccontare? inoltre per concludere che ti puoi aspettare 
              da un bambino che guarda una cosa? che la descriva con gli occhi 
              di un bambino. e se la osserva un genio che ti aspetti? probabilmente 
              qualcosa di ardito, forse di difficile comprensione. ma sicuramente 
              universale. 
           |   
         
         
          | CAPOLAVORO  
           | torna in alto 
           |   
          | Gio, 19 anni, Lonato (BS). 
           | (12 Agosto 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Un grandissimo film.3 oscar 
            sono pochi.chi critica questo film non capisce un c***o |  |