ESPLORARE LA PROPRIA ENERGIA

"Non appena esprimiamo una cosa, per qualche strano motivo la svalutiamo. Crediamo di essere discesi nelle profondità degli abissi, e invece quando torniamo alla superficie la goccia d'acqua che brilla sulla punta delle nostre pallide dita non somiglia più al mare dal quale proviene. Crediamo di avere scoperto una grotta piena di meravigliosi tesori; e quando riemergiamo alla luce del giorno non abbiamo che pietre false e cocci di vetro; e tuttavia nelle tenebre il tesoro seguita a brillare immutato."
E' vigliaccheria cominciare dicendo che sarà difficile comunicare non solo il valore, ma addirittura l'evento in sé? Può darsi. Eppure, chissà perché, c'è un'urgenza speciale a comunicare le esperienze più indicibili, quelle al limite. Perché di questo si è trattato per chi lavorava, specchiarsi nei limiti personali e in quelli sociali. Eravamo tutti attori, o quasi, eppure ci è servito pochissimo. Si cominciava da un esercizio innocuo in sé. Si giocava a esplorare l'energia propria o di colui che ci stava di fronte, o di un intero gruppo che si opponeva al nostro; già fatto mille volte. Conoscevamo i nostri punti di forza - chi il corpo, chi la voce, un precedente insegnamento - cui fare ricorso durante l'esercizio per portarlo fino in fondo al meglio. Ecco il punto. Fino in fondo, non necessariamente al meglio. Il meglio è il fondo, ed e difficilissimo raggiungere quel punto estremo per davvero. Siamo pigri, o troppo professionisti, o troppo narcisisti. Istintivamente ci rivolgiamo a movimenti che il nostro corpo già conosce, per sapere dove andare a parare. Oppure ci giudichiamo…'guarda che bella cosa sto facendo'…che poi significa contemplarsi, e quindi essere passivi, e la passività non produce nulla. Il peggio è quando pensi di esserci riuscito; ma se arrivi a concepire che quello è il limite, che, sì, il corpo sta andando da solo, allora ancora c'è il primato del pensiero. Anche per chi guida il lavoro c'è lo stesso pericolo. Se ci si innamora di un movimento o di un'immagine, la tentazione è di tenere quello come metro di paragone. Invece bisogna essere coraggiosi e osare una proposta, spingere, fidarsi di chi la deve elaborare. Fiducia reciproca. Io ti regalo la mia idea, tu mi presti il tuo corpo; esploriamo, per superare il già noto. Secondo me il teatro di ricerca è quello che non ha le soluzioni, ma solo le domande, che getta continuamente nuove teste di ponte. Sembra facile da dire, ma dopo un po' di tempo, a una certa età è spesso fatale ripiegare sulle soluzioni, su ciò che conoscendolo mi rassicura. A quel punto pongo le domande al modo giusto - agli attori e al pubblico - e gli faccio ottenere le soluzioni. Molto gratificante, spesso emozionante, begli spettacoli. Ma il fondo resta lontano.
"E allora era anche possibile che dal mondo chiaro, quotidiano, l'unico che sino ad allora aveva conosciuto, una porta si aprisse verso un altro mondo cupo, tenebroso, passionale, nudo, distruttivo. E che fra quegli esseri umani la cui esistenza si svolge in una sorta di edificio trasparente e solido di vetro e ferro, regolata fra ufficio e famiglia, e gli altri, i reietti, gli insanguinati, gli immondi dissoluti, gli errabondi in labirinti ricolmi di grida, non solo esistesse un varco, ma che anzi i confini, segreti e vicini, si toccassero e fossero oltrepassabili a ogni istante."
E dunque di questo si tratta. Siamo salvi, perché il cerchio magico ci protegge. So che posso ritirarmi, so come colpire se si tratta di colpire, o come subire se decido che quello è il mio ruolo. Sono salvo anche perché posso decidere il mio ruolo. Il problema è di portarlo fino in fondo, non giocare, non dire 'tanto è teatro'. Stanislavskij direbbe 'come se'. Come se la mia dipendesse dall'esito di questa lotta per ottenere un bastone, come se fossi il maschio che deve difendere il branco, come se (incredibilmente efficace) fosse l'audizione per scegliere il cattivo (ahi, quante ne ho prese…) Terribile, ma di tutti i 'come se' l'ultimo è stato il più produttivo. Veri animali in lotta per la sopravvivenza (in fondo, se ottieni la parte la pagnotta è assicurata - è tanto diversa la motivazione di un predatore?) Ma la soluzione al posto della domanda è in agguato. Dopo un po' tutto diventa lotta, e forse anche ricerca di quel compagno con cui ti eri trovato bene, per ripetere lo schema un'altra volta. Allora cambio di direzione. Provare a partire dall'esterno, invece che dall'interno. 'Fai il buono', 'fai il cattivo'. Fai, non sei. Cosa fa un buono con le mani, come riassumere la cattiveria in un passo, precisione - buono non è scemo, fesso, pappamolla, cattivo non è rabbioso, irato, nevrotico - e credibilità. I consigli di chi ti sta guardando sono preziosi. 'Prova a fare questo, a guardare così'. Si coopera, anche offendendo, stuzzicando, purchè faccia trovare qualcosa a chi è sotto. Stavolta bisogna usare i propri punti di forza, ma è sempre il corpo che conduce. Che pensa è perduto. 'Fare' diventa il motto. Ma, ahimé, non 'strafare'. Perché naturalmente la tentazione è fare tutto, fare tanto, guarda quanto faccio. Invece bisogna essere attivi nella passività, lasciarsi agire dagli stimoli, reagire - fino al punto estremo della reazione - abbandonarsi allo stimolo, abbandonarsi alla reazione e agire dentro questo abbandono. E se poi troveremo un Penteo da fare a pezzi, il problema è tutto del poveretto, che anzi! sarà interessante indagare la relazione tra Agave e Penteo. Se avessero chiesto prima ad Agave per che ragione avrebbe potuto uccidere un figlio, la madre non avrebbe trovato risposta, si sarebbe fatta uccidere lei piuttosto. E invece, troppo tardi - ma noi siamo protetti dal cerchio magico, dal 'come se' - troppo tardi scopre Agave che il suo limite è più in là, che per ucciderlo non le serve neanche una buona ragione. Le mani di Agave disperata che reggono la testa del figlio da lei stessa sbranato sono l'immagine più forte ed efficace della follia ambigua indotta da Dioniso. Chi l'avrebbe detto, prima?

Francesca D'Este, gruppo teatrale di Marghera QUESTA NAVE

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