Il verde del rancore e lo "shining" di Kubrick

Finalmente una voce, una sola voce, che però è mille voci diverse. Meno male, un lungo monologo che pur nel suo dialetto quasi arcaico è il più novecentesco dei lunghi discorsi al proprio io, che è poi quello di tutti, quello dell'uomo moderno. Paradossalmente unite la vicenda reale e quella epico-fantastica trecentesca, il carattere evocativo di certa simbologia fin troppo esplicita perde per me il suo carattere di farsa, fastidiosa ritualità del teatro, e assume ai miei occhi la connotazione di un momento in cui è necessaria la preventiva conoscenza della storia affinché, come nel teatro antico, sia proprio in questa l'identificazione del pubblico con la vicenda e l'assimilazione culturale di ogni spettatore al suo vicino. Ermanna è bravissima, ha una voce che si adatta a tutti i miei stati d'animo reali e sono soddisfatta e felice quando progressivamente si scopre sulla scena un omogeneo colore verde che investe ogni oggetto e persona, il verde del vestito della sorella apparentemente più savia, Ermanna, ma sconvolta dal rancore, il verde del rancore, appunto. Sono 55 minuti in cui l'attenzione è risucchiata principalmente dall'attesa che accada qualcosa sulla scena, immobile nella parte superiore, quasi uno "shining" di Kubrick, e agitata in quella inferiore, da una forza istintuale che, quasi un "coro animale", borbotta un commento alla vicenda, in un altro dialetto, quello canino. Lo svolgersi culmina in un giuramento, una manciata di minuti, accompagnati da musica e luci che frammentano violentemente la staticità della scena, le due protagoniste mute che con la mano destra alzata, assicurano la veridicità della storia, non quella di Alcina dell'Orlando Furioso ma della romagnola guardiana dei cani in un'Italia molto più nordica, alla Von Trier, più che mediterranea inizio-novecentesca.(rosa)

 

Un exploit di tensione psichica

Messa a punto nell'ambito del pluriennale "Progetto Orlando" - per il quale Marco Martinelli di Ravenna Teatro porterà in scena a luglio, al Festival di Santarcangelo, il Baldus di Folengo - l'Alcina presentata alla Biennale di Venezia riconduce l'epopea ariostesca a un racconto di stalla e di aia. Ne sono protagoniste due sorelle, innamorate dello stesso straniero: quando la minore, la Principessa, s'accorge che lui l'ha tradita con la maggiore, sprofonda nella muta follia del desiderio impossibile - come l'eroina che imprigionava i suoi amanti in forme animali non appena se ne stancava, e che però resta inerme quando s'invaghisce invano di Ruggiero.
Il testo di Nevio Spadoni è la travolgente invettiva di Alcina, furente strega di Paese, contro il mondo, la sorella che accudisce, i maschi, i cani che custodiscono, impersonati da 5 giovani attori rinchiusi nel sottoscena - e in definitiva se stessa. L'essenziale e raffinato spettacolo di Marco Martinelli vive della straordinaria prova d'attrice di Ermanna Montanari (contrappuntata dal silenzio e dalle risate isteriche della Principessa di Giusy Giannini). Lo spigoloso e oscuro dialetto romagnolo di Spadoni non è una lingua madre alla quale abbandonarsi per ritrovare il respiro del mondo, ma una materia da aggredire, squartare, comprimere, alla ricerca di geometrie e simmetrie, continuamente intrecciata alla poesia sonora di Luigi Ceccarelli.
In uno spazio semplicissimo, modellato dalle geometriche luci di Vincent Longuemare, Alcina ha un exploit di atletismo vocale e di tensione psichica, in una lotta contro se stessa che trascende psicologia e senso, negli strati più profondi del corpo uno sbocco d'ira emozionante e violento, torrenziale eppure ricco di sfumature, fino all'invocazione all'istupidimento, alla perdita di sé - una resa alla forza eversiva del desiderio che era già tutta in Ariosto.(oliviero)

 

La passione per l’endecasillabo e la Ferrari

Davanti al computer, per la prima volta a scrivere una e-mail. Potevo prepararmi a casa, comporre un pezzo da "ricopiare". Invece no, voglio provare l'ebbrezza della "diretta".Voglio scoprire se una tastiera è più veloce di una penna...
E' bella la scelta del termine "Cantiere" al posto del solito "Laboratorio". "Cantiere " dà l'idea di un luogo in continuo fermento, popolato da muratori, fabbri, carpentieri,  tutti intenti a costruire qualcosa di grande. Non c'è l'intimità di una "Laboratorio", la solitudine sacrale dell'artigiano.
Eppure  nel "Cantiere Orlando" la sacralità non manca, la si respira fin dai primi momenti. Fin dalle poesie che Ermanna legge, fin dalle citazioni di Giordano Bruno da parte di Marco. Gli "allievi" (mi piace definirli così) attenti e timidamente perplessi. Che c'entra l'asino di Giordano Bruno con l'"Orlando Innamorato"? C'entra, c'entra... Abbiate fede.
"Signori e cavalier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quieti ed ascoltati
La bella istoria che il mio canto muove..."
Quest'estate ho passato i momenti che precedevano l'addormentarmi leggendo i versi del Boiardo. Un canto ogni sera. Musica per le orecchie, cibo per l'infantile fantasia. Quasi una ninna nanna prima di chiudere gli occhi. -Nonna, mi cunti u cuntu? - chiedevo a mia nonna prima di mettermi a dormire. E mia nonna mi raccontava, col suo cantilenante dialetto palermitano, di Orlando e Angelica, Carlo Magno e Rinaldo. Chissà dove aveva appreso mia nonna contadina quelle storie. Forse le aveva sentite dai "cunti" di Tommaso Fiorentino a Villa Giulia, oppure da Peppino Celano, quando "cuntava" a Piazza Marina...
- Nonna, mi cunti u cuntu?
- C'era 'na vota un re chi si chiamava Carlu Magnu. 'Stu re avia na curti di paladini e sirvitura e tutti l'unuravano. Nu jornu arriva na lu palazzu 'na bedda picciotta, biunna, cu li capiddi longhi. Appena idda trasiu, tutti li paladini si n'innamuraru... "
...E vedereti i gesti smisurati,
L'alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo del re Carlo imperatore..."
Ecco, Matteo Maria Boiardo, Marco ed Ermanna mi hanno fatto piombare indietro nel tempo, quando non sapevo ancora cosa fosse l'epica, ma già di epica in realtà mi stavano cibando... Si offenderebbe Matteo Maria se sapesse che è grazie alla fantasia di mia nonna che io oggi posso apprezzare le sue ottave?
Marco mi invita a spiegare agli allievi gli accenti dell'endecasillabo. Lo faccio con la passione con cui un meccanico della Ferrari spiega i segreti del motore. Mi guardo poi attorno: alcuni hanno capito, altri fanno finta di aver compreso... Sorrido e rispiego con più umiltà. Adesso tutti hanno chiaro cos'è un endecasillabo, cos'è un'ottava, cos'è un accento ritmico... Sorrido ancora. In fondo non ha importanza. L'importante è che adesso loro si trovino qui, al Teatro di Fondamenta Nuove, a confrontarsi con la loro fantasia interpretativa e con la fantasia di Matteo Maria.
Le ore passano, anzi volano. Improvvisazioni su improvvisazioni, momenti di alta creatività si mescolano a momenti di banalità profonda (non tutte le ciambelle riescono col buco...). Ma Marco osserva tutto, tutto vaglia con attenzione, a tutti fornisce i giusti suggerimenti. Per tutti ci sono acute osservazioni.
Alla fine della serata esci contento e stanco, ricco e più "grande". E con tanta fame...
Mi fermo qui. La sovrapposizione di immagini mi sembra già abbastanza ingarbugliata. Un'ultima immagine però ancora preme: quella di una trentina di  teatranti che, alle dieci sera cercano disperatamente una pizzeria o una trattoria a modico prezzo. Niente. Tutto chiuso. Ah, Venezia ingrata!
(Antonino Varvarà, assistente uditore del secondo laboratorio del "Cantiere Orlando")

 

La voce alla ricerca della cudeltà

Il teatro, se vuole emozionarci, colpirci e travolgerci, non deve mai perdere di vista la ricerca, che prima di tutto è di senso e di sensibile. In questo movimento per ricercare, si registra un rinnovato interesse per la parola, oggi elaborata elettronicamente, dopo estenuate fisicità e allestimenti che sembravano averla relegata ad accessorio di un'arte pensata, prima di tutto, come visiva.
Il lavoro centrato sulla voce come grumo su cui si impernia lo spettacolo, non è poi così nuovo. Il capostipite è sicuramente Carmelo Bene, che già alla Biennale di Venezia usufruiva di tecnologie ipertrofiche e fantascientifiche (per l'epoca) al fine di eliminare il senso di ciò che proferiva.
Oggi, dopo più di dieci anni, quei macchinari sono archeologia di scarso valore, ma l'uso della processazione elettronica della voce è più in auge che mai, e come allora a Venezia, lo scopo primo è la creazione di un pattern sonoro, dove la voce sposta la propria funzione primaria di comunicazione verbale, verso una trasmissione non veicolata dai fonemi impliciti di una lingua.
Recentemente questo indirizzo è stato intrapreso dalla Socìetas Raffaello Sanzio, che nel corso degli anni novanta è passata da filtri fisici, quali il martellatore sulla glottide dell'Orestea e l'elio del Giulio Cesare, ai filtri digitali che hanno permesso loro di spostarsi sempre più verso il canto, prima con Voyage au bout de la nuit e poi con quest'ultimo Il Combattimento, dove si scontrano, finalmente, con la lirica.
Di questo modo di fare teatro, oggi abbiamo un nuovo campione ne L'Isola di Alcina del Teatro delle Albe. Ancora una volta è la Biennale di Venezia il punto di partenza di questo evento centrato sulla voce.
Ma la parentela con il passato non è così semplicistica. Il lavoro di Martinelli è imprescindibile dalla comunicazione verbale, anche quando si affida a lingue come il Wolof degli attori senegalesi, il Barese e il Romagnolo. Il regista, a ragione, individua in questi idiomi una capacità di travalicare la sfera comunicativa normale, toccando visceralità che l'uso appiattito di una lingua nazionale non permette più. Questo sarà molto più vero per coloro i quali il dialetto usato appartenga alle proprie radici, risvegliando in loro legami di identità forti, riportandoli a quel passato prossimo nel quale l'uso del dialetto e della sua signifiacazione si sgretolavano sotto l'urto della televisione con il suo italiano piatto e perfetto.
Ma il lavoro dell'Alcina non si limita solamente a questo. Accanto alla prova di Ermanna Montanari che con un uso incredibile della propria voce fa venire letteralmente i brividi, rimandando a una serie di punti fondanti del teatro del XX secolo, quali le riflessioni di Artaud che nella voce rilevava lo strumento principe per la ricerca della crudeltà, c'è il suono di Luigi Ceccarelli.
Entrambe le partiture si dispiegano complementariamente, aiutandosi con il geniale light-design per animare una scena volutamente statica, dove l'unico elemento di movimento è la muta di cani che si muove sotto i piedi delle sorelle Alcina e Principessa. E c'è quel magnifico catafalco, che ricorda quello della Mecca, coperto da un telo nero. Alla rimozione del tendone esso si manifesta in uno splendente oro per poi mutare in una serie di colori, suggerendo qualità materiche oltre a quelle luminose. Il passaggio da una luce ad un'altra è come un tocco leggero di archi su una poderosa partitura musicale.
Ma siamo sempre qua: nell'Alcina il centro è la musica. Fin dall'inizio il sottotitolo recita: concerto per corno e voce romagnola. I suoni del corno non sono suonati in modo armonico, bensì campionati composti, scomposti, montati e agglutinati elettronicamente, tanto che lo strumento si riconosce esplicitamente solo in quei frammenti dove l'armonia risulta "tradizionalmente suonata". Per il resto la sensazione è di un accumulo di suoni che nulla hanno a che fare con le concezioni musicali che noi tutti diamo per scontate. Altre volte sembra che questi accumuli scivolino via come in piccole frane.
Accanto alle mille voci terrificanti della strega Ermanna, e strega perché nella sua capacità fonatorie si annida qualcosa di magico e spaventevole, c'è la bravura di altri due fondamentali elementi, Luigi Ceccarelli, il compositore, e Vincent Longuemare, il creatore delle luci.
Questo spettacolo è anche l'occasione di una riflessione più ampia, che oltrepassa la sfera teatrale tout-court. L'isola di Alcina è la dimostrazione che oggi la sperimentazione musicale si fa sempre più teatrale e performativa, nel senso che abbisogna di manifestarsi contemporaneamente con altri medium, abbandonando la specificità del concerto di sola musica. L'aveva già intuito John Cage, ma questa è un'altra storia…

 

La seconda opera del Cantiere Orlando: Il Baldus

 

Nella tana del lupo

Ci si arrampica per andare a teatro: bene, può servire per sollecitare qualcuno abitudinariamente assiepato nella consuetudine comoda del consumare spettacoli come libri letti sprofondati in una poltrona.
Ci si ritrova nella tana del lupo, in un covo di briganti che tra vino e salsicce bivacca in attesa del prossimo colpo. I caratteri, le facce, i toni, sono quelli giusti, emerge l’anima barbara delle Albe, quella che aveva fatto de "I Polacchi" uno spettacolo-capolavoro di energia teatrale contagiante.
Ma c’è qualcosa che non va. Il dispositivo parte, entra a regime in una buona risoluzione di ritmi, ma non arriva a destinazione. Forse sono io, sono stanco, un po’ assonnato, non riesco a stare al gioco. Oppure c’è qualcosa che riguarda l’impianto drammaturgico: quel coefficiente che non sottende solo la scrittura ma la sua correlazione con gli attori, i personaggi, l’azione nello spazio, la percezione condivisa... Marco lo sa, eccome. Dopotutto sarebbe stato veramente eccessivo creare dopo "L’isola d’Alcina" (uno dei migliori spettacoli degli ultimi anni, in assoluto) risolvere al primo colpo questa seconda opera del cantiere orlando.
Meglio così: crescerà in occasione della ripresa primaverile. Nel frattempo i "pallottini" (emblemi del teatro eccessivo idealizzato da Jarry) si decanteranno come il vino che ha bisogno di tempo. (carlo)

 

 

Un eroe da ridere


Ha debuttato al festival di Santarcangelo "Baldus", rivisitazione fatta dalle Albe del poema di Folengo.
Villa Torlonia: si entra, per mezzo di una scala, da un'alta finestra; e con un'altra scala si scende all'interno di una grande stanza. Siamo nel covo dei briganti, un antro illuminato dalle fioche luci delle candele. Poche decine di posti per gli spettatori-ospiti dei discendenti scapestrati e chiassosi di Orlando, che ballando e urlando al suono quasi assordante di una musica tecno da rave party, offrono vino e salsicce agli avventori. Un buon inizio, per questo secondo episodio del Cantiere Orlando che, dopo il concerto dell'Isola di Alcina, bello e spaventoso (e non c'è altro da dire in proposito), ci proietta subito nel mondo di Baldo e i suoi, un mondo improbabile e talvolta assurdo, ma che non risulta per nulla ostico, anzi diverte con scene esilaranti - come quella della nascita prima di Baldo poi del fratello Zambello - e talvolta commuove e fa riflettere.
Così, dopo un prologo in cui lo spettatore viene coinvolto, accerchiato e rischia la morte (e sicuramente perde un paio d'anni di vita vedendo un gigante di almeno centosessanta chili correre velocissimo ad un soffio dalle sedie degli spettatori), comincia la storia vera e propria...
Con l'entrata del re di Francia (l'attore storico delle Albe Luigi Dadina, anche nel ruolo del contadino Berto e del Senatore Tognazzo) comincia il torneo, concluso il quale Guidone, il cavaliere più valoroso di Francia, scappa con Baldovina, unica figlia del re. I due raggiungono Cipada, piccola cittadina nel mantovano, dove Baldovina dà alla luce Baldo che, forte e
orgoglioso, vive alle spalle del duro lavoro del fratello Zambello, capeggiando un gruppo eterogeneo di briganti: il gigantesco Fracasso, Cingar, ladro abilissimo che nasconde un animo poetico, Falchetto, mezzo uomo e mezzo cane, che corre velocissimo e Sordello, che ha firmato col sangue la petizione contro gli sbirri. Dopo un coinvolgente susseguirsi di eventi, che porteranno alla cattura di Baldo da parte di Gaioffo, signore di Mantova, i nostri eroi riusciranno a fuggire su una nave verso nuove avventure.
Continua cosi il successo di una formula che si è dimostrata vincente già con lo spettacolo I Polacchi. Assieme a Luigi Dadina, sono protagonisti dello spettacolo alcuni dei Palotini de I Polacchi, tutti provenienti dalla non-scuola di teatro (progetto che le Albe portano avanti dal 1991), che dimostrano qui una grande maturazione individuale, nella quale è evidente la maestria di Marco Martinelli nel plasmare la dirompente energia e l'entusiasmo di questi giovani attori.
Martinelli ha messo a segno ancora una volta un colpo vincente, scegliendo di rappresentare un testo, come quello del Folengo, sconosciuto ai più e dai toni irriverenti verso gli schemi della sua epoca. Lo stesso Martinelli definisce il Baldus 'il poema dell'anarchia, il riso poetico di un anarchico sull'anarchia del mondo, e proprio in questa chiave ci presenta la sua riscrittura, che si allontana dagli schemi del teatro tradizionale.
(francesco)

Una mucca pazza d’amore

In quei giorni avevo appena finito di assumere altre forme che mi ritrovai in Baldovina,una mucca pazza d'amore maculata di bianco e nero,la figlia del re di Francia.
Innamorata follemente di Guidone,un cavaliere con lunghi capelli biondi,decise di scappare con lui verso nuovi mondi eterei e credette di arrivare a Cipada(Citra Padum)invece si ritrovo' presso la cascina Mandriole in un capannone attualmente utilizzato come magazzino,sperduto tra le valli e la campagna e vicino al cippo di Anita Garibaldi.
Quel luogo impervio fu la nostra zucca dei bugiardi dove riuscimmo tra una merenda e l'altra a mettere in piedi il "Baldus",futuristicamente adattato in un epoca piuttosto moderna,e costruito secondo criteri di improvvisazione infallibili di cui pero' ho gia' trattato nei capitoli 7,8 e 9 di questo libro.
Cosa resta da dire???
BRAVISSIMI,tutti bravissimi,bravi bravi bravi bravi bravi bravi bravi bravi,ecco adesso ho ho detto proprio tutto... (anto)