| Una premessa
 L'11 settembre del 1973 colpì la mia generazione 
          brutalmente.Malgrado le avvisaglie che qualcosa potesse succedere, neanche i più 
          avvertiti di noi avevano previsto il colpo di Stato in Cile: improvviso, 
          efferato, sconcertante. Dopo la morte di Che Guevara in Bolivia nel 
          1968 ed il sostanziale fallimento di alcuni movimenti come Sendero Luminoso 
          in Perù, l'esempio cileno, il governo di Unità popolare, 
          avevano riacceso la speranza di una formula democratica di governo che 
          potesse costituire per il Sud America un esempio ed un punto di riferimento. 
          E questo certamente fu l'elemento che più preoccupò gli 
          Stati Uniti d'America e le potenze economiche conservatrici e reazionarie 
          interne al Cile e agli altri Paesi sud americani, tanto da indurli a 
          favorire e sostenere il colpo di stato militare di Pinochet.
 Dal giorno dopo del colpo di stato fu un susseguirsi di assemblee ed 
          incontri con esponenti del Mir, del Mapu e del Partito comunista cileno 
          casualmente presenti in Italia che, oltre a comunicarci le migliaia 
          di morti, di torturati e di scomparsi nel loro Paese, ci raccontavano 
          di un'esperienza di governo democratica, creativa, gioiosa spenta nel 
          giro di pochi giorni in un disperato bagno di sangue.
  La brutalità e la determinazione con cui si preparò e 
          si eseguì il colpo di stato in Cile furono tali da determinare 
          una mutazione profonda nella stessa linea del Partito comunista italiano; 
          Enrico Berlinguer, con alcuni editoriali su Rinascita, di fatto assunse 
          l'impossibilità per il nostro Paese di un Governo alternativo 
          a quelli moderati e filoamericani.
 Nei mesi e negli anni successivi le manifestazioni del Movimento studentesco 
          ebbero come colonna sonora i canti degli Inti Illimani e nelle nostre 
          riunioni frequenti furono le letture di versi delle poesie di Pablo 
          Neruda o delle canzoni di Violeta Parra: "el pueblo unido jamas 
          serà vencido".
 Poi a poco a poco diminuì l'attenzione, si stemperò l'angoscia 
          e scolorì il ricordo come per ogni cosa, ma forse per il Cile 
          è accaduto in maniera particolare ed ingiusta.
 Dopo 25 anni dal golpe sono voluto andare in Cile e sulla piazza di 
          Santiago, di fronte al monumento che ricorda Salvador Allende, e a Isla 
          Nigra nella fondazione Pablo Neruda e con i cileni che ho incontrato, 
          con il cuore gonfio di emozione, ho cercato ricordi e racconti di allora. 
          Ma i cileni non amano raccontare quello che accadde, sembrano aver chiuso 
          quel tragico momento nel profondo del loro cuore, quasi che a parlarne 
          se ne possa diminuire la drammaticità. Solo un vecchio a cui 
          ho offerto un sigaro toscano, fumando mi diceva che ogni famiglia aveva 
          avuto almeno un morto e che i militari golpisti avevano portato migliaia 
          e migliaia di militanti di Unità Popolare con i bombardieri sopra 
          i ghiacci del mare del sud e, per non sprecare munizioni, li avevano 
          lasciati cadere in acqua con i piedi legati a un sasso. Ancora vivi.
 Guai a chi non conserva la memoria, guai a chi non ricorda le tragedie 
          della storia. Ricordare il Cile dopo trent'anni e rappresentare quei 
          giorni tragici attraverso il Teatro, forma espressiva più forte 
          di ogni dichiarazione e scevra da ogni retorica, mi è apparso 
          un dovere e farlo mi riempie di emozione e di orgoglio.
 Renato PasqualettiAssessore ai Beni Culturali della Provincia di Macerata
 
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